26 giugno 2007

Un deificio

visto l'ultimo numero dedicato alla città questo stralcio mi sembrava all'uopo

Alberto Savinio, Partita Rimandata

L'avvento dell'Umanesimo segna in certo modo la fine dell'architettura. L'architettura come aspetto esteriore, come cosa verticale, come imitazione della formula dell'universo, perde la sua ragione di essere perché è venuta a mancare l'ideata forma verticale e piramidale dell'universo.
"Fine dell'architettura" va intesa con mente ambigua. L'Umanesimo segna la fine non dell'architettura ma di "una" architettura: dell'architettura ispirata alla forma "tolemaica" dell'universo.
L'architettura Greca, anche quella sacra, non è fatta ad immagine di DIo. Il tempio greco è un edificio destinato ad "ospitare" il dio. (La mia penna aveva scritto "un deificio"). Il dio abita nel suo tempio ma non fa corpo con esso, non dà al tempio la sua stessa forma, come il violino alla cassa che lo contiene. Il dio greco è un dio ambulante, un dio viaggiatore un dio girovago. Egli sta nel suo tempio ma gli piace anche uscirne, andare in giro. E viaggiando e girovagando sa che troverà altri templi aperti a lui e pronti ad ospitarlo.
Il tempio greco è soltanto l'albergo di dio. Il tempio latino (e cattolico) è la forma di Dio diventata edificio; è il calco della forma di Dio. C'est le moulage de la forme de Dieu... [continua]
Il tempio greco - questa casa di passaggio di Dio - è rettangolare e vestito di angoli. Angolo e rettangolo allontanano dal centro e portano in direzioni diverse e prive di meta. Il tempio latino e cattolico è circolare (e cupolato), perché il circolo circoscrive e chiude, e conduce verso il proprio centro che è Dio.
L'umanesimo segna la fine dell'architettura che riceve la propria forma dall'esterno. Rimane l'architettura che nasce da ragioni interne: equivalente all'uomo libero che ha scoperto l'origine di tutto in se stesso; come le case che disegna il mio amico Enrico Galassi, le cui forme esteriori, angoli, curve, piani, non sono se non il "negativo" delle ragioni interne della casa: camere, corridoi, scale. Ispirato da questo principio squisitamente umano il mio amico Mirco Basaldella scolpisce le sue statue gentilissime "dall'interno". Lo scultore-uomo ha vinto in lui lo scultore demiurgo.
francesco

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25 giugno 2007

Tre cose #5

* Il Disinformatico segnala una cosa interessante che vi riporto. Si tratta di un bel record. Sul sito Haltadefinizione (sponsorizzato da DeAgostini e Nikon) è possibile consultare l'immagine con la più alta definizione grafica: 9,9 GIGAPIXEL (cioè circa 10 miliardi di pixel per pollice)! Si tratta di un collage di quasi 1200 foto della Gloria di Sant'Ignazio di Andrea Pozzo (1685) affrescato sulla volta della chiesa di Sant'Ignazio a Roma (quella del famoso trompe l'oeil dello stesso Pozzo, la finta cupola). L'immagine è ovviamente zoomabile fino a livelli di dettaglio prima impensabili e spalanca entusiasmanti prospettive allo studio dell'arte, alla digitalizzazione delle opere e alla loro diffusione (che ne direbbe Benjamin?).

* Leggo sul n° 603 de Les Inrockuptibles un appello in favore di McSweeney's. Si tratta della casa editrice fondata nel 1998 da Dave Eggers (l'autore, per capirci, dell'imperdibile L'opera struggente di un formidabile genio, mirabile e divertentissimo esempio di romanzo postmoderno nonché geniale smontamento dell'apparato metaletterario ed editoriale; ne scrisse bene un amico, qui. Un ritratto dell'opera e dell'autore anche su Wittgenstein). McSweeney's distribuisce libri e musica oltre ad un mensile specializzato, The Believer. Consegna ai suoi autori il 100% dei guadagni e stampa in Islanda. Fino ad oggi ha pubblicato tra gli altri i dischi di David Byrne, le sceneggiature di Nick Hornby, Stephen King, e ha tradotto Houllebecq per gli Stati Uniti. Si tratta insomma di una delle pochissime case editrici americane indipendenti che ha portato una vera ventata d'aria fresca nella scena artistica della West Coast. Per porre rimedio alle carenti sovvenzioni statali e soprattutto a un deficit di 130mila $ McSweeney's ha lanciato una serie di offerte: -5% sugli abbonamenti, -30% sulle novità e -50% su tutti gli altri titoli. Sarebbe un bene se chi fra di noi legge l'inglese (o ha amici che lo leggono e a cui deve un regalo) facesse un giro sul loro sito e, come suggeriscono loro stessi, ordinasse "dei libri per voi, i vostri amici, Barack Obama".

* Nel 1988, Gilles Deleuze rilasciò un'eccezionale intervista all'amica Claire Parnet alla condizione di diffonderla solo dopo la sua morte (avvenuta nel 1995). Il titolo è Abécédaire e tratta, durante più di tre ore, di ogni sorta d'argomento, dalla A di Animale alla Z di Zigzag, passando per Idea o Tennis. Il blog Rue89 ha ottenuto il permesso dalle edizioni Montparnasse di pubblicare un estratto del DVD, quello in cui Deleuze spiega cosa secondo lui sia essere di Sinistra. In questi ultimi tempi di crisi delle identità politiche (su entrambi i versanti delle Alpi), credo che questo breve documento possa tornare utile.
Qui il video, di seguito una mia rapida traduzione:

DELEUZE: Se mi si dicesse: "come definire l'essere di sinistra?" o "come definire la sinistra?" risponderei in due maniere. Ci sono due modi.
Innanzitutto è una questione di percezione. Non essere di sinistra, cos'è? Non essere di sinistra è un po' come un indirizzo postale: partire da sé, la via dove si abita, la città, il paese, gli altri paesi, via sempre più lontano. Si comincia da sé e, nella misura in cui si è dei privilegiati e si vive in un paese ricco, ci si domanda: "come fare perché la situazione duri?". Sentiamo che ci sono dei pericoli, che tutto ciò non durerà, che è troppo demente. Ma come fare perché ciò duri. Ci diciamo: i cinesi, sono lontani, ma come fare perché l'Europa duri, ecc. Essere di sinistra è l'opposto. È percepire... si dice che i giapponesi non percepiscono come noi. Loro percepiscono prima la circonferenza. Allora loro diranno: il mondo, l'Europa, la Francia, rue de Bizerte, io. È un fenomeno di percezione. Percepiamo prima l'orizzonte, percepiamo all'orizzonte.

INTERVISTATRICE: Non sono poi così di sinistra i giapponesi...

DELEUZE: Non vuol dire. Su questo punto sono di sinistra. Nel senso dell'indirizzo postale, sono a sinistra. Dunque, tu vedi all'orizzonte. E sai che non può durare, che non è possibile. Miliardi di gente che muore di fame. Può durare ancora cent'anni, non lo so, ma non bisogna esagerare con questa ingiustizia assoluta. Non è in nome della morale: è in nome della stessa percezione. Se cominciamo dal fondo, da questi (incomprensibile), per sapere dunque e, in una certa maniera, augurarsi e considerare che sono lì i problemi da risolvere. E non è dire semplicemente: "bisogna diminuire la natalità" perché questa è una maniera per mantenere i privilegi dell'Europa. Non è questo. È veramente trovare delle soluzioni, le istituzioni mondiali che faranno... In effetti, essere di sinistra, è sapere che i problemi del terzo mondo sono più vicini a noi che quelli del nostro quartiere. È veramente una questione di percezione. Non è una questiona di buon anima! È questo, innanzitutto, essere di sinistra per me.

Paolo

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Qualcuno pianga il Concilio

Dal blog Sassoscritto un intervento di Matteo Marchesini

Pare che la Madonna sia destinata a rimanere un’icona infausta per gli omosessuali bolognesi. Quando ottennero da Zangheri il Cassero, sulle sue mura rispuntò una lapide che dedicava la Porta Saragozza alla Vergine di San Luca: e a un tratto uno spazio utilizzato per decenni da associazioni di ogni tipo (operaie, sportive, fasciste) diventò un santuario da contendere ai «busoni». Oggi un titolo kitsch, brutto e vacuo come quelli di mille altri eventi attraverso cui l’industria culturale inganna chi ha più bisogno di riaffermare la propria identità, si trasforma in un casus belli gigantesco: messe riparatrici, richieste di dimissioni a sindaci e ministri, indagini giudiziarie. Eppure non è un caso serio come quello scatenato da monsignor Vecchi quando, dopo il pestaggio di due omosessuali, dichiarò che «la violenza è cugina della trasgressione». Ma per metter da parte i gay e restare al côté artistico, la notizia non riveste neanche l’interesse della fiacca polemica bipartisan sulla statua di Moana, che Wolfango sistemò a Natale nel presepe di Palazzo d’Accursio: statua che può offendere solo chi confonde la Bibbia con Radio Maria o chi non è mai entrato in una chiesa barocca. No, al centro degli sdegni odierni c’è appena una boutade subculturale. Eppure sembra un contrappasso, per una Chiesa la cui dottrina piange di continuo embrioni, ma riduce etica e fede a un prontuario in cui si sezionano i gesti d’amore secondo i termini spietati di una casistica più chirurgica che teologica. Detto ciò, se parlo di questa mediocre vicenda è perché ha riportato alla ribalta uno dei miei personaggi preferiti: l’ineffabile deputato di Forza Italia Garagnani, già celebre per aver denunciato ogni spettacolo in cui comparisse la parola “vagina”, con o senza santi, e per avere istituito un numero verde a cui gli studenti potevano denunciare i prof. ostili a Berlusconi. Non si può nemmeno dire che Garagnani riduca la religione alla ginecologia, che è comunque una disciplina dignitosa: semmai, la costringe nei sordidi uffici della Buoncostume. Dove si parla di secrezioni, lui c’è sempre: con accuse di vilipendio e aspersori branditi come manganelli. In ogni caso, dovendo descrivere il clima cittadino, direi che insieme al grande Alberigo Bologna ha seppellito quel che resta del Concilio Vaticano II.

Matteo Marchesini

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23 giugno 2007

Cerco

Una canzone di Rino Gaetano del 1978, che negli ultimi giorni ho riascoltato spesso. Probabilmente, anzi con sicurezza, non è il più bel brano del musicista calabrese, ma questa canzone, a tratti anche retorica, la trovo una specie di condensato di alcune delle sue tematiche più ossessive, che inevitabilmente messe lì in maniera così eterea arrivano al bersaglio, a dovere. Ovviamente la mia parte preferita è quella che riguarda i bar, le carte e la mia dannata periferia (la stessa che è stata ritratta nelle opere dell'ormai internazionale Gerome). Poi una promessa: tra qualche tempo imparo a mettere sul blog le canzoni in versione audio, che solo il testo davvero non ha senso.

Vittorio Martone


Cerco

E al mattino al mio risveglio cerco in cielo gli aironi
e il profumo bianco del giglio
cerco in tutte le canzoni e in un passero sul ramo
uno spunto per la rivoluzione
cerco il filo di un ricamo un accordo in la minore
per gridare forte t'amo
se ho degli attimi di rancore cerco te e la tua bocca
nei tuoi occhi trovo amore
cerco la mia malattia in un bar e nelle carte
la mia dannata periferia
cerco gli occhi di chi parte
di chi si ferma e chi va in fretta
la sincerità nell'arte
cerco il punk in una lametta la felicità ed il dolore
nel fumo di una sigaretta
se ho degli attimi di rancore cerco te e la tua bocca
nei tuoi occhi trovo amore

Rino Gaetano

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19 giugno 2007

Questione morale

(Premessa: questo non vuole essere un pezzo "giornalistico", non ne ha le prerogative né il rigore. Giusto una riflessione, qualche domanda, partendo da informazioni onestamente parziali).
Leggendo i giornali e guardando le tv, ci si accorge che il termine "casta", riferito alla politica italiana, è ormai bello che sdoganato. Riporto dal Dizionario Garzanti online: "1 gruppo sociale chiuso, in cui norme giuridiche e religiose vietano la mobilità dei membri verso altri gruppi: la popolazione indiana è divisa in caste. 2 (fig. spreg.) categoria sociale o professionale che si mantiene chiusa e compatta nella difesa dei propri interessi e privilegi: la casta dei politici". Forse qualcuno lo aveva già usato prima a questo proposito, ma mi sembra che sia dalla recente pubblicazione del libro di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, La casta appunto, che si è cominciato a impiegarlo correntemente per descrivere il gruppo politico dirigente. La dice lunga anche questa facilità e rapidità di diffusione del termine. Il libro non l'ho letto, ma immagino facilmente che vengano descritte le scorrettezze di uomini politici appartenenti a tutti gli schieramenti. Se prima, con Berlusconi, le leggi vergogna erano assolutamente coerenti con la storia "politica" del personaggio, ultimamente invece anche la sinistra, quella della tacita ma tanto vantata superiorità morale, è stata pescata con le mani nella marmellata e per di più incontra maggiori difficoltà nel difendersi, o, se non altro, manca di quella sfacciata abilità nel negarsi. Le intercettazioni riguardanti D'Alema e Fassino (penalmente irrilevanti fino a prova contraria, ma politicamente e moralmente pesanti) o il caso Visco, non sono che l'ultima di una serie di porcherie in cui anche la sinistra si trova ormai a sguazzare. Quella sinistra che dovrebbe essere diretta erede della famosa "Questione morale" e che invece se ne sta allontanando a grandi falcate, avverando i timori di un presago Berlinguer che nel 1981 dichiarava: "Tutte le "operazioni" che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell'interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un'autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un'attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti. [...] Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi; rischia di soffocare in una palude". Insomma, chi fino all'anno scorso predicava la morale contro la barbarie berlusconiana, si ritrova ora e giustamente sul banco degli accusati (non che i governi di centrosinistra precedenti al 2001 siano esenti da colpe, vedi caso Telecom).

Questo in Italia. Come scrivevamo amaramente qualche post fa (e come ci ricorda anche l'Intermezzo escatologico), noi purtroppo ci siamo abituati. Allora faccio un salto in America Latina, in casa di altre sinistre: butto sul tavolo altri elementi, magari provocatoriamente, magari forzatamente, per cercare di evidenziare punti comuni (la parola d'ordine deve rimanere però "mutatis mutandis"). Penso ai tre alfieri del rinnovamento sociale sudamericano, le cui vittorie elettorali hanno fatto sperare nella possibilità di un reale cambiamento democratico del continente: Lula in Brasile, Chavez in Venezuela e Morales in Bolivia. Sintetizzo brutalmente: tutti e tre socialisti, provenienti dagli ambienti popolari, due di loro, Chavez e Morales, addirittura di origini indigene, Lula sindacalista ed ex-operaio, tutti in aperta rottura con gli ambienti tradizionali anche dal punto di vista dell'immagine; insomma tre personaggi apparentemente esenti da sospetti di casta, anzi, tre veri e propri outsider. Non conosco nel dettaglio le rispettive condotte politiche, ho fatto qualche ricerca specialmente sul presidente venezuelano e sono rimasto piacevolmente colpito da alcuni suoi aspetti (a questo proposito è stato molto utile l'ottimo lavoro di Carmilla, in particolare quello di chiarificazione della strana faccenda di RCTV, che la stampa mondiale ha unanimemente bollato come atto dittatoriale e che vi consiglio di rivedere). In ogni caso sono convinto che il pubblico di sinistra o altermondista globale, nutrisse grandi aspettative sui tre leader, benché conscio della difficoltà del compito e dell'opposizione dei potentati economici che hanno affossato il Sudamerica. Tuttavia vado su wikipedia e dintorni e cosa vedo? Che tra le azioni politiche più o meno riuscite, spiccano però delle cadute etiche assolutamente sorprendenti: il governo brasiliano pesantemente coinvolto in un giro di corruzione diffusa e servilismo economico con il partito del leader che ha totalmente cambiato faccia, Chavez che ha aumentato del 1500% le spese di Palazzo Miraflores, sede del presidente ( "1000 dollari al giorno solo per preparare i pasti di Chavez, 2 milioni di dollari per i ricevimenti a Miraflores, 250 mila dollari per i vestiti e le scarpe di Chavez, 40 mila per i suoi profumi, 5 milioni di dollari l'anno per i suoi viaggi") e che ha piazzato tutti i membri della sua famiglia in sedi di rilievo, Morales che ha addirittura proclamato la sua casa natale monumento nazionale. Ora, non voglio, non riesco, ad ignorare la bontà di alcune delle iniziative prese da questi governi: mi vengono in mente la proposta di riconoscere la proprietà sui terreni delle favelas ai loro abitanti (non so se questa, come le altre, sia stata poi davvero messa in atto) in Brasile, l'allargamento del voto agli indigeni e la lotta all'analfabetismo in Venezuela, il raddoppiamento del salario minimo in Bolovia e in generale la nazionalizzazione delle risorse naturali a beneficio della popolazione e in chiave anti-imperialista. Ma perché anche gente come questa, gente del popolo, non politici di professione, gente che ha scontato sulla propria pelle il disagio delle popolazioni sudamericane, una volta raggiunte le stanze del potere viene avvelenata a questa maniera? Possibile che anche la loro etica sia così debole? Che in occidente, in Italia, un fighetto e "politico di professione" come D'Alema ci caschi mi stupisce ormai poco, ma Morales, Chavez, Lula? Perché, perché pure loro?
Ho fatto confusione? C'è qualcosa che non ho capito? Sono disinformato, o solo ingenuo? Aiutatemi a capire, anche, spero, attraverso sonore smentite.

Paolo

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A piedi

Si tratta solo della segnalazione del blog di viaggio di Claudio Sabelli Fioretti e Giorgio Lauro, la cui scoperta devo a Francesco. Un diario che mi colpisce molto, specie in questo periodo, e che inevitabilmente mi sento di legare, anche se magari solo di striscio, alla mia rubrica Sans domicile fixe. Resoconti di viaggio quindi, questa volta a piedi, attraverso la solita Italia di provincia che da un po' non dico mi ossessiona, ma rimane parecchio presente nelle mie riflessioni. E leggendo queste pagine, dico la verità, un po' d'invidia mi nasce, se non altro per la possibilità di andarsene letteralmente "a spasso" senza preoccupazioni di "sopravvivenza" com'è tipico di una certa, malgrado loro, upper class un po' free un po' "bobo". A seguire un'anticipazione.

Vittorio Martone


«La frase è storica: "Anche quando ti sembra che Garmin sbagli, c'è sicuramente dietro un disegno. Non hai visto con quale sicurezza e disinvoltura ci ha portato fuori dal dedalo del centro storico di Ferrara?" Sono costretto ad ammettere che su Ferrara Garmin è stato grande. "Se non fosse stato per lui", confesso a mezza bocca, "staremmo ancora davanti alla profumeria di Cristina Chiabotto".

Cristina Chiabotto, l'ex miss Italia, l'ex presentatrice delle Jene, la coprotagonista della pubblicità con l'uccellino di Del Piero, è un grande risveglio per le nostre coscienze assopite da giorni di sentieri, valli, paesi fantasma, trattorie-alloggi, rettifili infiniti e ostili. Cristina Chiabotto ci riporta alla realtà vera, cioè l'effimero. Una lunga coda davanti alla profumeria nella piazza centrale di Ferrara ci fa capire che dentro sta succedendo qualcosa. Ma dentro non succede niente. C'è solo Cristina Chiabotto che firma autografi. Non si può entrare se non con il beneplacito di una body guard che filtra con attenzione gli ingressi. Noi tre ci aggiungiamo al gruppone degli aspiranti fans ma non siamo nemmeno presi in considerazione, anzi io vengo brutalmente respinto. Giorgio saltella sopra le teste e urla festante: "Cristina! Cristina!". Cristina lo saluta con un gesto del braccio. Allora Giorgio si lancia in una inchiesta fai da te. "Ma lei perché sta qui in fila?" Risposta: "C'è Cristina Chiabotto". "Ah beh, ma alla fine si può toccare con mano o solo guardare?" Nessuna risposta, solo sguardi indignati. Non si può buttare tutto in vacca.

L'incontro con Cristina Chiabotto, dicevo, è surreale. Tre pirla in movimento senza motivo da otto giorni si scontrano con molti pirla fermi in coda senza motivo. "Due Italie che si incontrano", borbotta Giorgio, il sociologo, allontanandosi pensieroso. Io questa me la scrivo.»

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15 giugno 2007

Tabard intervista l'Ansia


Tabard: Quale pensi sia divenuto il tuo ruolo nella società postmoderna, in rapporto soprattutto alle epoche precedenti che hai attraversato? Parlaci a proposito dei tuoi inizi.
Ansia: Lomu smettila immediatamente! Non credo proprio. Se quelle due mi avesse detto che il tubolare di gomma costava così tanto col cazzo che l'avrò comprato. Tutto tempo perso. A questo punto era meglio Reagan. Lui i barattoli li facevamo schizzare come y. Paramilitare. Voi o crosta.

T.: In tutte le tue ultime opere, soprattutto dalla fine degli anni Sessanta, si coglie un rinnovato entusiasmo verso l'impegno nel sociale, più in generale traspare una sorta di élan vital sempre crescente e contagioso. A cosa è dovuto?
A.: 58 kili di mele cotogne è la sua ultima offerta tabernacoli essiccati.

T.: Ferma restando la tua ricerca costante di nuove tecniche espressive e d'intervento, quale pensi essere il cuore della tua poetica, se ce n'è uno?
A.: Quand le ciel bas et lourd pèse comme un couvercle, sur l'esprit gémissant en proie aux longs ennuis, et que l'horizon embrassant tout le cercle, il nous verse un jour noir plus triste que les nuits. [ride]

T.: Quali sono gli artisti che ti hanno maggiormente ispirato?
A.: 21. Circa.

T.: In effetti, riflettendo su quello che hai appena detto, potremmo pensare anche che un provocatorio ritorno a un certo lirismo parnassiano, per come lo intendi tu, potrebbe rappresentare una svolta notevole rispetto a scenari consunti come quelli della poesia contemporanea. E dal contemporaneo è facile poi passare alla musica pop rock. Con la figura molto significativa, per esempio, del b-side, questo scarto d'autore che cela spesso tracce programmatiche molto più significative, proprio in quanto scarto. [L'Ansia, che aveva passato l'intervista sul groppone dell'intervistatore, scende perplessa]. Scarto, produzione minore, ma minore rispetto a cosa? E quel motivetto che ti si pianta in testa. [l'Ansia si guarda intorno stupita]. Dylan che, a proposito, ha aspramente criticato il nuovo mercato della musica online. Internet come rivoluzione guidata, canalizzata in sentieri sicuri, previsti? Quale sarà l'etimologia della parola "tedesco"? Devo ricordarmi di spedire quel fax.
A.: Scusa, ma non mi stavi intervistando?
T.: [ignorandola e cominciando a passeggiare via]. Che poi io manco volevo farla st'intervista, avevo già buttato giù qualche idea per il post sull'etica politica, molto più interessante quello, chissà poi se me la fanno passare sta robaccia, a me le interviste non son mai venute bene
A.: Oh, eh, ma... ma che fai? Dove vai? No, oh, guardami, resta qui, ma come, avevi tante domande da farmi, parevi così concentrato, beh, che...
T.: [non la sente neanche più]...sì sì, dirò a qualcun altro di occuparsene lui, gli passo la registrazione. L'altro post sarà più interessante, sì, sì, sì, andrà tutto bene. Ora ho sonno, ho troppo sonno.

Paolo


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Niente male. Riprovateci.

Stavo rileggendo alcune pagine di storia della letteratura nordamericana quando ha cominciato a ronzarmi in testa il ricordo di un aneddoto pynchoniano che a molti Tabardiani ho già raccontato in passato. Per quanti si imbatteranno per la prima volta in questa storiella, la cosa potrà magari risultare divertente; per chi l'ha già sentita parecchie volte, pazienza, sto invecchiando, e com'è naturale che accada, finisco col ripetere sempre le stesse cose.

Che Pynchon sia tra i più misteriosi scrittori americani lo sanno in molti (non concede intervista alcuna, rifiuta i premi, non è noto dove viva né tanto meno che aspetto abbia e, come Salinger, o forse in maniera ancora più maniacale, rigetta ogni sorta di compromesso con la famigerata "industria culturale"). Quello che forse non tutti sanno - e veniamo all'aneddoto curioso - è che, proprio basandosi su questi aspetti in comune tra i due scrittori, il settimanale newyorchese Soho Weekly News avesse avanzato l'ipotesi che in realtà Pynchon e Salinger fossero la medesima persona (avvalorando la suggestiva congettura con la considerazione che Salinger smise di scrivere più o meno in contemporanea con l'uscita, nel 1963, del primo romanzo di Pynchon V - gentilmente offerto da Google libri in "anteprima non disponibile"). E veniamo alla chiusa del simpatico racconto: in risposta alla supposizione del Soho il nostro si premurò di far giungere alla redazione un laconico e sarcastico telegramma di sole quattro parole: «Not bad. Keep trying.», per l'appunto: «Niente male. Riprovateci.»

Vittorio Martone

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13 giugno 2007

Intermezzo escatologico

"Conosciuta ben a fondo e continuamente sentendo la vanità e la miseria della vita e la mala natura degli uomini, non volendo o non sapendo o non avendo coraggio, o anche col coraggio non avendo la forza di disperarsene, e di venire agli estremi contro la necessità e contro se stesso, e contro gli altri che sarebbero sempre ugualmente incorregibili; volendo o dovendo pur vivere e rassegnarsi e cedere alla natura delle cose; continuare in una vita che si disprezza, convivere e conversar con uomini che si conoscono per tristi e da nulla: il più savio partito è quello di ridere indistintamente e abitualmente d'ogni cosa e d'ognuno incominciando da sè medesimo."

Giacomo Leopardi
(dal Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'Italiani)

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12 giugno 2007

La letteratura dell'inesperienza

Sarò sincero: quando ho comprato La letteratura dell’inesperienza di Antonio Scurati volevo essere un po’ coccolato. Lette le critiche, piovute copiose, sul pamphlet ero sicuro di andare… a colpo sicuro. Parafraso arbitrariamente: “basta parlare di inesperienza”, “ma come si fa a parlare, oggi, di inesperienza?”, “…i paesi in via di sviluppo…”, “la Cina e Roberto Saviano”, poi solo “Roberto Saviano”, poi solo “…Saviano…” e poi “…Saviano… al quadrato…”. Insomma, pensai, finalmente qualcuno che con coraggio cerca di portarsi oltre la sbornia “borromeamente” neoetica e catarattara che da un po’ di mesi ci viene propinata. Se “forma” e teoria sono i nuovi sgherri postmodernisti che, in dichiarata combutta con strumenti di comunicazione di massa, criminalità organizzata, la velina bionda di Striscia e il pupazzo Gnappo, cercano di ingarbugliare i santissimi principi di chi vuole solo lavorare per un reale e oggettivo miglioramento delle condizioni sociali (infondo “neo-pragmatisti” senza rendersene conto), io sono la retroguardia silenziosa di una filosofia (per fortuna sconfitta) che si crogiolava in un sogno mistico di apertura e orizzontalità (in fondo “universalista” mio malgrado). Dunque mi sento un po’ solo, dunque mi sento un po’ in colpa, dunque mi vado a leggere La letteratura dell’inesperienza di Antonio Scurati.

Non ho lo spazio per una ricognizione integrale del testo, ma quello che voleva essere il solito discorso “postmodernismo vs resto del mondo” deve trasformarsi, dopo la lettura del libro, in qualcosa di molto più banale e di molto più terrificante (c’è letteralmente da “cagarsi addosso”): Scurati è assolutamente d’accordo con i suoi detrattori.

E mo? Come glielo spiego al mio ego che ha per settimane parteggiato con chi militava nel campo opposto? E come spiego al mio amor proprio che le menti più illuminate dell’intellighenzia italiana (sì, Carla Benedetti, ce l’ho proprio con te) sono talmente accecate da questo nuovo bisogno (desiderio) di etica a buon mercato che o non si rendono conto che il povero Scurati è semplicemente un serissimo intellettuale che, per combattere ciò che ritiene sbagliato, scende nel campo dei suoi avversari e si mette in discussione nei confronti delle loro ragioni, o storcono il naso non appena si accenna alla teoria per capire l’esistenza, o, ed è l’ipotesi peggiore, leggono troppo velocemente?

A voi, etici di pancia (infondo vattimiani), il mio augurio nietzschiano di “lettura lenta”, e un carissimo saluto a Richard Rorty che venerdì ci ha (anche simbolicamente) lasciato. Un grandissimo modernista come Jean Renoir fece dire, nel 1939, a un suo personaggio: «La cosa orribile è che a questo mondo ognuno ha le proprie ragioni», è oggettivamente vero :-), ma almeno che le motivi bene.

Mimmo Cangiano

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À la guerre!

Com'è ragionevole che sia, tutti si vuole lo sterminio della zanzara tigre. Passatemi la terminologia bellicosa (con buona pace delle teorie sull'autoritarismo che sarebbe alimentato anche da tale forma di espressione), ma quella che è in corso è una battaglia, è il caso di dirlo, fino all'ultimo sangue!

Insetto dei più inutili che esistano al mondo, particolarmente resistente e versatile, sorta di rivoluzionario ante litteram schierato contro le logiche della catena alimentare - chi cacchio la mangia la zanzara tigre? E poi, mettiamo caso un rettile o un anfibio qualsiasi, quante diavolo ne deve mangiare per saziarsi? - la zanzara tigre è in grado di molestarci con una costanza che ha dell'incredibile - senza considerare che con i cambiamenti climatici potrebbe arrivare a proliferare per 12 mesi all'anno (per non parlare poi del rischio di diffusione di malattie tropicali finora inesistenti da noi come la febbre gialla e la dengue).

È per questo motivo che ci sentiamo di sottoscrivere appieno la campagna del Comune di Bologna contro l'indesiderato ospite delle nostre paradisiache città mediterranee. E affinché tutti si diventi «cittadini attivi», come recita lo slogan della detta missione, è giusto che il comune felsineo, grazie anche all'opera indefessa del suo Assessore alla Salute e Comunicazione Giuseppe Paruolo e al contributo dei suoi geniali esperti di marketing e pubblicità, ricorra a qualsiasi stimolo per incentivare i superficiali ed oziosi cittadini all'azione.

Ma quale poteva essere il punto su cui andare a battere per ovviare all'intorpidimento generalizzato e all'assenza di una cittadinanza critica (come nella migliore tradizione delle genti emiliane di una volta)? Dopo lunghi scervellamenti e innumerevoli brainstorming la risposta è venuta finalmente alla luce. In una città che a livello nazionale risulta al terzo posto per reddito pro capite - ma ci viene il dubbio che la media sia notevolmente sollevata da un'oligarchia, magari ampia, ma pur sempre un'oligarchia - non si poteva puntare che sul principio del profitto. Ne deriva che il flagello venuto dall'Asia rappresenti un problema non tanto o non solo per i tormenti fisici che procura, ma perché invade le nostre case di onesti lavoratori cibandosi delle nostre risorse e occupando abusivamente i nostri spazi vitali.

Nel lodare i premurosi artefici di una tale iniziativa pubblica, ci resta solo un rimpianto: peccato che una simile campagna d'odio non sia stata avviata anche contro gli scomodi invasori universitari, che magari investiranno anche ingenti somme di danaro per il sostentamento quotidiano e le onerose pigioni, ma le cui molestie al sabato sera restano una violazione imperdonabile perpetrata a danno della nostra civile cittadina.

Vittorio Martone

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10 giugno 2007

Un anno fa, un anno in più (o in meno)

Un anno fa, il 10 giugno 2006, la rete accoglieva tra le sue infinite trame anche il primo post di questo strano blog. Oggi, 94 post e 15mila visite dopo, cerchiamo di tirare un po' le somme, che alla fin fine, volenti o nolenti, è ciò che si fa ad ogni anniversario.
Quando abbiamo aperto questo blog non sapevamo bene neanche noi cosa ne avremmo fatto o voluto fare. Un po' per inesperienza un po' per diffidenza un po' per gli impegni dei vari membri del gruppo, questa pagina parallela al sito ufficiale ha faticato ad attivarsi e a trovare un suo perché e una sua identità. Non che ce l'abbia ancora, una vera identità (qualcuno ci chiama blog letterario, un po' a sproposito e tradendo in parte le premesse della rivista) però cominciamo a seguire dei tracciati più precisi, grazie alle nuove rubriche ad esempio, ad avere qualche riconoscimento esterno (ci contano tra i loro link diversi altri siti) ed il blog è diventato la principale pagina di riferimento per Tabard su internet.
94 post in un anno vuol dire una media di 8 post al mese, che è una media veramente bassa. Va spiegato però come questo sia un dato fuorviante: basti pensare che se a giugno e luglio del 2006 i post furono complessivamente 5, nel solo maggio scorso questi sono saliti a 18, cioè circa un post ogni due giorni. Dopo una provocatoria dichiarazione di morte del blog nel gennaio di quest'anno, un post in particolare (non a caso un post di quel tipo) e una ridda di mail di redazione, questa pagina ha ritrovato senso e slancio e da allora tutto fila molto meglio.
I commenti sono e restano la voce dolentissima del blog, una delle sue risorse più importanti che non viene sfruttata a dovere (lo spiega molto bene qui Mimmo, in un intervento che riflette bene anche sulla rete e sulla blogosfera in particolare): ne sono stati lasciati infatti solo 267, vale a dire una media di poco più di due commenti per post. Meglio pochi ma buoni, si dirà riferendosi giustamente alle file di insulti, provocazioni o circoli viziosi che popolano i commenti dei blog più quotati. Ma i nostri non sono pochi, sono niente.
Altro tasto dolente, la partecipazione del collettivo. L'elenco ufficiale dei tabardiani conta, nell'ultimo numero della rivista, 34 membri: solo 13 hanno postato o commentato sul blog e di questi tredici uno ha firmato 35 post (un terzo, ma è anche uno che non ha un cazzo da fare), un altro 15, un altro ancora 9. Seguono altri quattro compagni con circa 5 post a testa e tutti gli altri un solo post. La rappresentatività è quantomeno sbilanciata e sarebbe molto ma molto meglio se le stesse polifonia e molteplicità sulle quali si basa Tabard facessero sentire i loro echi anche su queste pagine.
Un restyling grafico e organizzativo è in discussione da tempo e mi auguro che trovi presto una realizzazione, magari nel corso dell'estate dove gli impegni comuni e personali possono calare. Mi auguro anche che il blog continui con gli stessi ritmi degli ultimi mesi e che possa essere sempre più un aiuto e un prolungamento della rivista cartacea. Ora basta, ché ieri ho fatto festa, non ricordo se per il blog o per qualcos'altro, ma ho comunque un gran mal di testa.
Un abbraccio a tutti coloro che hanno partecipato in quest'anno e un ringraziamento ai lettori.

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Simm' turnAte!!!


Perdonate l'esultanza (forse anche inconsueta per questa sede),
ma nun c'ha faceve cchiù.
Napoli di nuovo in A!!!

Vittorio

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09 giugno 2007

Un albero per aula

Con grande entusiasmo segnaliamo l'uscita del libro dell'amico e compagno tabardiano Lorenzo Casaburi Un albero per aula - Busia: vite al confine tra Kenya e Uganda (Intramoenia 2007), raccolta di riflessioni dopo il lungo soggiorno in Kenya, a Busia, come volontario dell'ong ICS Africa. La presentazione del volume è fissata per lunedì 11 giugno alle ore 17 presso la Sala dell'Aquila (via Galliera 26, Bologna). All'evento, organizzato in collaborazione con l'Istituto Gramsci Emilia-Romagna, parteciperanno anche Marco Rossi-Doria e Maria Vittoria Fabbri. Previste letture di estratti del volume da parte di Cristina Renzetti. Coordina il dibattito Magda Indiveri.

PER INFORMAZIONI:
Istituto Gramsci Emilia-Romagna
tel. 051 231377 - 227971
e-mail: eventi@iger.org

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08 giugno 2007

Urbis di Franco Donaggio

Caso più unico che raro ormai, repubblica.it, evidentemente a corto di donnine nude, segnala qualcosa di interessante. Franco Donaggio è un fotografo italiano che combina egregiamente fotografia e strumenti digitali con risultati di grande inventiva e resa espressiva. La sua serie Urbis, realizzata tra il 2003 e il 2006, è dedicata alla città e mi sembra coglierne con estrema forza la dinamica caotica e molteplice per creare percorsi ironici e labirintici. Così la introduce l'autore: "Ho interpretato la metropoli come spazio di gioco, un grande supermercato dove con gli occhi prendi ciò che vuoi senza pagare. Spesso tornato a casa, svuoto la mia fotocamera dalle immagini che ho visto, poi le 'lavo' dai significati e le ricompongo in visioni personali".
Peccato averlo scovato dopo la pubblicazione del numero, ma il blog può e deve servire anche a questo, ad ampliare e continuare le ricerche intraprese nel cartaceo. Qui trovate la galleria d'immagini completa.

Paolo

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Sans domicile fixe - A Orte

« [...] il senso d'isolamento lo si prova soltanto
durante il tragitto da un luogo all'altro,
cioè quando non si è in nessun luogo.
Io appunto mi trovo qui senza un qui né un altrove,
riconoscibile come estraneo dai non estranei
almeno quanto i non estranei
sono da me riconosciuti e invidiati. Sì, invidiati. »

« Ho un bell'andare e venire, girare e dar volta:
sono preso in trappola,
in quella trappola atemporale
che le stazioni tendono immancabilmente. »

Italo Calvino, Se una notte d'inverno un viaggiatore


È dal profilo di Orte che mi sento di cominciare, per raccontare in qualche modo di un periodo di lunghi spostamenti, avanti e indietro per l'Italia e per mezza Europa. L'esigenza di mettere per iscritto qualche impressione di viaggio non è dettata tanto dalla necessità di tirare le somme, ma semmai dal desiderio di tracciare qualche punto, di costituire una seppur primordiale struttura senza la quale, dopo un anno di vagabondaggi, non saprei più rimettermi in movimento (né tanto meno in gioco). Già, paradossale che la storia di molti viaggi debba essere tramutata in una metanarrazione per arrivare infine a partire di nuovo. Ma l'idea di viaggio di cui si parla qui (o alla quale si ambisce) non ha nulla a che fare con i percorsi, o meglio con "il" percorso circolare e ripetitivo dentro cui il concetto stesso di viaggio si svuota, per ridursi a una forma di compulsività o di mera coercizione. Le si chiama cartografie cognitive, queste reti di puntine piazzate in giro. In quanto tali, non credo di sbagliare, esse sono una forma di analisi.

Proprio quest'assenza di punti fissi, di una casa propriamente detta, anche se transitoria, con quanto di estraneità e di isolamento ne può derivare, mi porta a intitolare questa rubrica "Sans domicile fixe". Mi si passi il gallicismo, ma in una storia di estraneità scegliere un'altra lingua per dare un titolo, senza fare ricorso al nostro altrettanto efficace "senza fissa dimora", sembrava avere il suo perché. E questo del titolo è già un primo, decisivo punto di partenza di questa ricerca (tale ancora di più, considerando che si va indietro tra cose già viste).

E tra le cose già viste, la prima che vado a ripescare è, come detto, il profilo di Orte, fissato nella memoria con l'immagine in cui mi imbatto ogni volta che procedo verso la stazione deviando a sinistra dalla SP 59 sull'imbocco della SS 315 (che a livello locale, in quel tratto iniziale, prende il nome di via dei Maratoneti). In questo modo la città vecchia, il borgo antico, lo si sfiora soltanto. Lungo quel tragitto la vista della città dal basso è molto simile al profilo che Pasolini aveva ripreso, in totali e panoramiche, per un breve documentario (più che altro una testimonianza) per il programma di Anna Zanoli io e..., che la RAI trasmise negli anni '70. In particolare, nella puntata intitolata Pasolini e... "la forma della città" e trasmessa il 7 febbraio 1974, il poeta parla di come il profilo di Orte sia stato rovinato dall'intrusione di elementi moderni (nello specifico delle case popolari) e di come esso, assieme ad altri elementi di arte popolare - in quanto tale non ufficiale e "non sanzionata" - debba essere invece tutelato in difesa del valore di un passato anonimo. Ma siccome Orte città, così come recita il sito del comune, è «conosciuta dai più come nodo ferroviario e stradale», è scontato che alla fine anch'io (che nel centro antico non c'ho mai messo piede) finisca col concentrarmi su Orte scalo (forsanche perché in quella stazione mi sono sentito spesso "preso in trappola", e non solo per i ritardi dei treni).

Orte scalo: nodo ferroviario di importanza fondamentale lungo l'asse sud/nord-est/nord-ovest, e punto di passaggio anche per il collegamento delle linee tirrenica ed adriatica. Messa così sembrerebbe di andare incontro a una stazione moderna, attrezzata e funzionale. E invece Orte rimane un tipico scalo ferroviario di provincia, piccolo e malandato, con soli cinque binari di cui uno utilizzato dai trenini a gasolio a fasce arancioni e blu della Ferrovia Centrale Umbra (anche se qui siamo nell'alto Lazio). A me personalmente queste stazioni, anche nel loro stato di abbandono, piacciono molto. Lo spettacolo di questi scali di provincia è però destinato a cambiare negli anni a venire: forse non diventeranno la versione in miniatura di un non luogo quale è oggi Roma Termini, ma sicuramente "subiranno" un'opera di ammodernamento abbastanza radicale. Orte infatti, come altri 102 scali ferroviari italiani, è inserita nel progetto di Centostazioni, la società a capitale pubblico-privato costituita dalle Ferrovie dello Stato per gestire e valorizzare le stazioni di medie dimensioni. Forse però che lo stato italiano ha a cuore i nostalgici, i romantici e i decadenti, per cui i tempi di ristrutturazione delle famose centotre stazioni, differentemente da quanto previsto, tendono a dilatarsi esponenzialmente. Come nel caso appunto di Orte, che secondo i programmi di partenza avrebbe dovuto essere totalmente rinnovata entro la fine del 2005 (ad oggi solo l'atrio sembra aver subito qualche intervento). Che ne deriva? Mah, a parte una generalizzata sensazione di abbandono - compreso il rischio che dei calcinacci ti cadano in testa dalle tettoie sopra le banchine - nulla di più (anche le latrine non sono poi tanto male). La cosa ha anche i suoi vantaggi, se si viaggia di domenica, visto che la biglietteria nel giorno di festa resta chiusa e che, almeno per i tagliandi interregionali, non ci sono biglietterie automatiche (in tal caso il titolo di viaggio lo si può comodamente reperire a bordo del treno stesso anche se, detto tra noi, capita che a volte i controllori non passino. Santa domenica!). Per i viaggiatori regionali, invece, i biglietti si possono prendere da una macchinetta oppure, se si ha voglia di contatto umano, al bar della stazione.

Veniamo ad un altro luogo topico, dunque, che tra l'altro ha il pregio di avere un cortile niente male, esposto al sole (quando c'è) e comodamente attrezzato per le lunghe attese. L'elemento più avvincente di questo buffet della stazione è però un altro: l'ammaliante presenza, subito dopo l'ingresso sulla destra, di uno di quei giochi da luna park comunemente noti col nome di "pesca miracolosa" o "pesca fortunata", a seconda di quale forma di credenza o superstizione si voglia adottare (per i più laici, invece, sappiate che il giochino in gergo tecnico si chiama "pesca verticale"). I premi in palio? Principalmente pupazzetti e ammennicoli di diverse squadre di calcio. Tra i peluche e i ninnoli, poi, il premio più ambito: il pallone di cuoio! - la cui cattura è resa ancora più complicata dalle appendici coccigee (volgarmente dette code) delle varie mascottes.

Io purtroppo non ho mai avuto cuore di cimentarmi nella pesca verticale di Orte, e non tanto per l'euro di posta, difficoltà certo non insormontabile nonostante le ristrettezze del viaggio. E nemmeno per una questione di pudore. Il fatto è che quel gioco piazzato lì, nell'infantilismo che di certo genera, basa tutta la propria attrattiva su di un senso di possibilità. Altrove la si coglierebbe, magari, questa occasione, ma la stazione, almeno in questo mio girare, è ineluttabilmente associata a un principio di rinvio, ad un obbligo verso un futuro ennesimo passaggio. E quindi ogni volta che torno a Orte scalo guardo il box della pesca, cincischio con le monete in tasca fino a tirarne fuori un euro intero... e poi dopo il caffè mi avvio verso il mio binario (di solito è il secondo), controllando che il pallone che piace a me sia sempre al suo posto dentro la teca. Sino ad oggi pare che nessuno ancora m'abbia anticipato. Benedetti peluche, e benedette code!

Vittorio Martone

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05 giugno 2007

Presentazione al Pavese

È prevista per giovedì 7 giugno alle ore 21 presso il Circolo Pavese di Bologna (via del Pratello 53) la presentazione del numero 5 di Tabard, recentemente entrato in distribuzione, dal titolo Goodbye Metropolis.

Nel corso della serata sarà presente il noto poeta svizzero Benjamino Merumeni che leggerà stralci della sua ultima fatica Poemi filosofici - Pensiero fisico dell'ultimo Savonarola. A seguire tavola rotonda con Merumeni e con il giovane artista francese Mathieu Gerome, del quale saranno proiettate alcune opere in anteprima. Coordina il dibattito il dott. Paolo Cova.

A seguire letture da Beckett, Calvino, Houellebecq, Steinbeck, Campana, Rebora e Sbarbaro.

Il numero 5 di Tabard affronta un'analisi del concetto di città contemporanea sfruttando i contributi delle scienze sociali. All'interno del numero si segnalano, oltre all'intervento di Salvatore Casaburi (cui va un ulteriore ringraziamento per la cortese collaborazione), le interviste a Franco Farinelli e ad Alessandro Portelli.

Di rilievo anche la ricerca fotografica di Giada Connestari, condotta nella metropolitana parigina, dal titolo Riflessi.

Il numero è dedicato alla memoria di Paolo Bollini.

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Antipasto di "Quarantena"

Una piccola anticipazione
dalla prossima Quarantena,
un testo di Marco Simonelli.







APOLOGIA PER WANNA MARCHI

Tu, donzellotta, venivi dalla campagna;
il tortellino, la lasagna ti fecero mogliera
fintobionda, fintorossa criniera,
donna grassa troppo commossa
dai mali coniugali. Una sera
dal seminterrato di TeleCantina
fu arrabbiato il ruggire del topino:

“O tu genuino lardo di Romagna,
fogna di grasso, ammasso di lipidi:
butterai giù la trippa! Ti fidi? Stai attento…
mordo! Dimagrisci subito, d’accordo?”

Il vero reato è il denaro rubato;
ma non l’imperativo “dimagrisci!”
l’infinito carisma alla speranza
di vedere, un giorno, ridotta la panza.

Adesso non è tempo d’omeopatici strilletti.
Tu ti dibatti dal fondo della tua galera, ohimè!
Ma a Voghera, ti giuro, tutte pregano per te.


Marco Simonelli
da: “Palinsesti”, in uscita per Zona

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03 giugno 2007

Brigate Anti Pubblicità

Nel 2003 è nato in Francia un collettivo che aveva l'obiettivo di boicottare la pubblicità nella metropolitana parigina. Questi ragazzi scarabocchiano (le loro azioni le hanno battezzate infatti "barbouillages", scarabocchi) e modificano i manifesti pubblicitari che tappezzano completamente i muri delle stazioni. Da queste piccole iniziative il movimento si è allargato in numero di militanti e ambizioni delle operazioni. Dalla metro si è passati alle strade, ai cartelloni, ai mega schermi e molti altri hanno aderito in altre città della Francia, del Belgio, del Canada (Quebec) e della Svizzera. Qui, qui e qui alcune dimostrazioni delle loro azioni (questo un video in spagnolo in sette parti; evidentemente non solo nei paesi francofoni hanno attecchito le idee antipub). La Brigade Anti Pub è il sito che raccoglie e cataloga tutte le azioni di boicottaggio e che presenta il "manifesto" del gruppo, le loro accuse alla pubblicità e le loro proposte e strategie di boicottaggio legale. Distribuisce anche modelli per fabbricarsi sticker o mascherine da utilizzare contro i manifesti. Li ho contatti e mi hanno gentilmente permesso di tradurre alcuni dei loro materiali. Vi riporto alcuni dei consigli che propongono per fare dell'attivismo antipubblicitario nel quotidiano e anche la lista (leggermente decurtata, ho tolto i riferimenti alla realtà francese e alcune ripetizioni) dei motivi della loro lotta.

Paolo

Qualche consiglio di boicottaggio legale:

* Se il postino si ostina a depositare prospetti malgrado il vostro espresso rifiuto, ridepositateli nelle cassette postali rosse.
* Non aprite mai la pubblicità; rinviatela al mittente dopo aver cancellato il vostro nome e aver scritto "rifiutato" sulla busta.
* Se il vostro giornale ha l'abitudine d'imbrogliare i suoi lettori inserendo le pubblicità in mezzo agli articoli, scrivete al direttore per domandargli di raggruppare tutta la pubblicità alla fine del giornale, affinché i lettori che ne hanno bisogno possano andare a consultarla senza che gli altri ne siano disturbati. Se si rifiuta o non risponde, riflettete se il fastidio creato da queste trappole pubblicitarie è più o meno importante del bisogno che avete dell'informazione contenuta nel giornale, e prendete una decisione di conseguenza.
* Rivoltate le buste di plastica che vi danno alla cassa dei negozi affinché la marca non sia più visibile. Meglio: portatevene una da casa.
* Per i genitori: comprate ai vostri figli del materiale scolastico neutro e incitateli a decorarlo a loro fantasia.
* Al cinema, non sentitevi obbligati a guardare la pubblicità prima del film (le palpebre permettono di chiudere gli occhi, le vertebre cervicali di reclinare la testa, le dita di tapparsi le orecchie). Se una pubblicità clandestina appare nel film, secondo le circostanze, fatelo notare al vostro vicino, o abbandonate la sala per protesta. Preferite i cinema che non diffondono pubblicità... esistono ancora.
* Verificate di non esibire alcuna marca, anche piccola, sui vostri vestiti, e fatelo notare alla gente che non prende le stesse precauzioni.
* Utilizzate i nomi comuni piuttosto che le marche per designare gli oggetti quotidiani: "penna a sfera, nastro adesivo, correttore liquido, motorino, macchina, soda..."
* Redigete una lista delle cose di cui avete bisogno prima di fare la spesa, e attenetevici.
* Quando un venditore vi disturba per telefono per proporvi la sua robaccia (se non fosse robaccia non avrebbe bisogno di disturbarvi) accettate l'appuntamento che vi propone. Quando suona alla porta fate finta di dormire. Se vi richiama più tardi, spiegategli che soffrite d'amnesia. Nel frattempo non avete più bisogno del suo prodotto, cosa di cui avete pieno diritto.
* Se qualche società vi invia per fax della pubblicità, rinviategli un foglio nero al centro del quale ci sia un rettangolo bianco grande come un francobollo contenente un messaggio a vostra scelta. Questo foglio contribuirà a consumare le loro riserve d'inchiostro.
* Boicottate la televisione, questa "bocca d'alienazione", meditando su questo: "Non possedete la televisione. Lei vi possiede".

Alcune ragioni per essere antipub (Le cifre e i dati si riferiscono alla Francia):

* La pubblicità è dappertutto: muri, vestiti, fermate dell'autobus, televisione, radio, automobili, strade, campagna, metropolitana etc. Non vi da fastidio?
* La pubblicità sfigura i paesaggi: chiunque difenda ancora il sistema pubblicitario dopo aver visto questa foto, quest'altra o quest'altra ancora, è completamento estraneo a qualunque concetto di bellezza...
* La pubblicità imbruttisce le città: Ah Parigi! Le sue strade in pietra, le sue vecchie chiese, la sua architettura magnifica... e quelle pubblicità di prosciutto affettato, automobili del cazzo o gente in mutande ogni 50 metri.
* La pubblicità è illegale: più di un terzo di tutti i pannelli pubblicitari in Francia è illegale. Che fa la legge?
* La pubblicità è inevitabile: a meno di cavarsi gli occhi è impossibile non vedere i manifesti pubblicitari. Come per le sigarette, che alcuni le amino è forse una ragione democratica per obbligare tutti gli altri a subirle?
* La pubblicità è il braccio destro del capitalismo: permette di smaltire gli eccessi di produzione incoraggiandoci a consumare sempre più. Chiunque lotti contro il sistema neoliberale dovrebbe interessarsi all'antipubblicità.
* La pubblicità propaganda delle ideologie nefaste: culto dell'apparenza, competizione, sessismo. Battersi per una società più giusta, più egualitaria, dove ognuno può vivere senza curarsi dello sguardo altrui, vuol dire anche battersi contro chi veicola questi stereotipi grazie alla pubblicità.
* La pubblicità è un martellamento: cartelloni sovradimensionati, manifesti che ricoprono palazzi interi, dieci pubblicità identiche di seguito, tunnel pubblicitari di 20 minuti alla televisione ecc. Senza curarsi un secondo del nostro benessere e del nostro quadro di vita, i pubblicitari applicano a meraviglia la parola d'ordine di Adolf Hitler: "Ogni propaganda efficace deve limitarsi allo stretto indispensabile, poi esprimersi in poche formule stereotipate. Solo la ripetizione costante riuscirà a incidere un'idea nella memoria di una folla."
* I prospetti pubblicitari inquinano e infastidiscono: 42 kg di prospetti pubblicitari per anno e per cassetta postale, di cui il 99,99% finisce immediatamente nella spazzatura: benvenuto spreco!
* I prospetti pubblicitari ci costano cari: le finanze pubbliche spendono 110 milioni di euro in spese d'incenerimento ogni anno, mente i responsabili, cioè chi stampa questi scritti, non pagano nulla.
* I manifesti inquinano: ogni anno migliaia di tonnellate di carta, migliaia di litri di colla e soprattutto d'inchiostro tossico sono sprecati per... spiegarvi che dovete assolutamente possedere quel paio di scarpe da basket o che quel deodorante farà cadere tutte le ragazze ai vostri piedi.
* I pubblicitari ci prendono per dei coglioni: "Keep them simple and stupids", "I consumatori sono come degli scarafaggi", "Sappiamo che la pubblicità colpisce gli imbecilli. Ho scoperto che funziona anche con degli inebetiti profondi". Tutte queste citazioni, vere, provengono da pubblicitari.
* La pubblicità è un pericolo per la libertà di stampa: controlla i media finanziandoli, in ogni caso gli impedisce di pubblicare ogni cosa che possa infastidirli.
* La pubblicità è un vettore di mediocrità: spinge i media alla volgarità e al populismo per fare dell'audience e così poter ammucchiare più ricette pubblicitarie.
* La pubblicità fa dello spazio pubblico uno spazio di mercato
* I pubblicitari sono dei parassiti: avete voglia di yogurt, comprate uno yogurt. Avete bisogno di un maglione colorato, ne comprate uno. Avete voglia di cinema, consultate un programma. Volete conoscere le ultime novità tecnologiche, andate in un negozio specializzato o su internet. In breve: a che serve la pubblicità?
* La pubblicità non è gratuita: paghiamo il suo costo comprando più cari i prodotti che promuove.
* La pubblicità ci giudica e ci colpevolizza: troppo grasso, troppe rughe, non in forma, non abbronzato, ecc. La pubblicità non ha forse delle responsabilità verso le tantissime vittime di anoressia?
* La pubblicità non ha alcuna morale: che un prodotto sia utile o meno, inquinante o meno, nocivo o meno, dal momento che il committente paga, la pubblicità ne farà la promozione.
* La pubblicità nuoce alla democrazia: riducendo ogni pensiero a un semplice slogan, è tutta la vita politica che è messa in pericolo. Non si tratta più di convincere per la giustezza dei propri argomenti o programmi ma di farsi vedere il più possibile. La maggior parte dei partiti politici fa ormai appello ai pubblicitari.
* La pubblicità rende tristi: un individuo felice è chiaramente meno consumatore e il lavoro dei pubblicitari è frustrarlo per generare l'atto d'acquisto.
* La pubblicità uccide: pubblicità per l'alcool, sessiste, per il tabacco, sulle strade che aumenta il rischio di incidenti.

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