26 giugno 2008

Creative Jammin' Festival e FarePoesia

L'Associazione culturale O.M.P. - Officina Multimediale Pavese promuove la quarta edizione del Creative Jammin' Festival.
Il Festival si svolgerà a Pavia, presso i Giardini Malaspina, piazza Petrarca,

in data 3, 4 e 5 luglio 2008.
Ogni serata avrà inizio alle ore 19.30 con un aperitivo accompagnato da diverse performance, per proseguire alle 21.00 con l'inizio dei concerti previsti.


3 luglio 2008
concerti: "The Pentothals" e "Small Peppers"
4 luglio 2008
piccolo coro multietnico – Le Voci della Pace
concerti: "Mandolin' Brothers" e "Corte dei Miracoli"
5 luglio 2008
letture con accompagnamento musicale di testi pubblicati da Edizioni
O.M.P. - FarePoesia, Improponibili e Menestrelli di Jorvik
concerti: "Figli di Madre Ignota" e "Masked Marvel"

*****
Inoltre si promuove la presentazione degli ultimi volumi
pubblicati dalle Edizioni O.M.P. FarePoesia
Le presentazioni avranno luogo presso la libreria "Il Delfino", piazza della Vittoria 11,

alle ore 18.30, secondo il seguente calendario:
giovedì 26 giugno 2008 Stefano Barco presenta il volume "Poesia d'amuro" del Gruppo H5N1
mercoledì 2 luglio 2008 Alfonso M. Petrosino presenta il volume "Assalti poetici" di Tito Truglia
giovedì 17 luglio 2008 Federico Francucci presenta il volume "Latitudini" di Pierluigi Lanfranchi



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Indieanerie

Una piccola segnalazione musicale da risveglio.

Per chi sarà da queste parti, il 22 luglio, a Ferrara, suoneranno (gratis!) i Notwist.

Io purtroppo non ci sarò. Il loro album del 2002, Neon Golden è un passetto fondamentale per chi segue un po' la scena indie-electro-post-rock-pop... ecc. O, se vogliamo, incarnazione e riedizione poppeggiante della tradizione kraut-rock. Già, perché loro vengono dalla terra dei krauti... (guardate il sito, e ditemi che non ci sono reminiscenze alla Kraftwerk).

Non a caso piacciono molto ai Radiohead, riescono a mischiare archi, violini e campionamenti, blues, jazz ed escursioni minimal o rumoriste: da ascoltare e riascoltare: è uno di quei dischi che ad ogni ascolto tirano fuori elementi nuovi, non notati nell'amalgama pop finale.

L'ultimo loro lavoro, The devil, you + Me, uscito da qualche mese, forse non è all'altezza del precedente, un po' piattamente ripetitivo, minimale in maniera estrema... a tratti noiosello, però comunque con sprazzi geniali: qui l'ultimo video. Ma quello che voglio farvi vedere è questo (bellissimo, da Neon golden):



E comunque: uscito il nuovo Sigur Ros (lo sto scaricando...)

Aspettando il nuovo Mogwai
(giusto per rimanere nella stessa orbita)

Eugenio

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23 giugno 2008

San Giovanni non vuole inganni


Segnaliamo la tre giorni San Giovanni non vuole inganni, una rassegna di spettacoli e incontri a cura del Teatro del Pratello dedicata ai ragazzi seguiti dai servizi della Giustizia minorile e con ragazzi di Comunità Minorili di Bologna. Un'iniziativa alla quale anche Tabard aderisce oltre che un'occasione di partecipazione e di confronto condotta al riparo dai toni urlati e dalle barriere del pregiudizio.

Dove?
Nel Cortile del Centro giustizia minorile per l'Emilia Romagna
via del Pratello, 34 - Bologna
23-24-25 giugno

Programma:

Lunedì 23
ore 20.00: coro R’esistente dei bambini di via del Pratello, seguito da una cena al sacco per gli spettatori (ad offerta libera); il prologo, organizzato in collaborazione con abitanti, commercianti e fruitori della zona, si conclude con la proiezione di un video in cui viene intervistata Odette Righi, abitante storica di via del Pratello e autrice di un libro sulla storia della via.

ore 21: i ragazzi della Comunità ministeriale, della Comunità Il Nuovo Grillo e di quella Piccolo Principe mettono in scena Lilliput Dinner, spettacolo ispirato al primo viaggio di Gulliver nel paese di Lilliput, frutto di un percorso di avvicinamento al teatro e di laboratori di pratica teatrale condotti presso le Comunità, che sarà accompagnato dalle percussioni di Paolo Caruso.

Martedì 24
ore 21: presentazione deIl Mare Dietro Il Muro, libro sulle esperienze di teatro negli Istituti Penali Minorili di Bologna, Milano e Palermo, a cura dei fotografi Maurizio e Federico Buscarino, e con testi di Massimo Marino (Electa Mondadori).

La serata vede la partecipazione degli autori, di Giancarlo De Cataldo, scrittore e giudice della Corte d’Assise di Roma e di Angelo Guglielmi, assessore alla cultura del Comune di Bologna.

A seguire, proiezione del video Fool Bitter Fool di Agnese Mattanò sulla realizzazione dell’omonimo spettacolo della Compagnia del Pratello nel 2007, presso l’IPM di Bologna.

Mercoledì 25
ore 21.00: spettacolo Voi Cavalieri Vagabondi messo in scena dalla Compagnia del Pratello con i ragazzi della comunità Compagni di Sogni e con i ragazzi che continuano l’esperienza teatrale a conclusione dell’iter penale. Voi Cavalieri Vagabondi è un recital concerto, che compone un centinaio di cartoline scritte ai giovani attori del Pratello dagli spettatori-studenti di Istituti superiori, che in questi anni hanno assistito agli spettacoli. La drammaturgia e la regia dello spettacolo sono di Paolo Billi.

Il 23, 24 e il 25 giugno dalle 20 alle 21 alcune osterie di via del Pratello ospitano Comizi d’arte, Amore e Storia, letture di storie personali di abitanti della via a cura della Bottega dell’Elefante e della rivista militante Tabard. Attori insoliti si alternano nella lettura, tra questi lo scrittore Emidio Clementi e la critica d’arte e consigliera del Comune di Bologna Milena Naldi.

Negli stessi giorni, sempre nelle osteria del Pratello è possibile vedere allestita la mostra I ragazzi della Compagnia del Pratello, retrospettiva delle foto di Marco Caselli e Alessandro Zanini, scattate dal 1999 a documentazione delle attività laboratoriali e degli spettacoli della compagnia teatrale dell’Istituto Penale Minorile di Bologna.

Non mancate!


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18 giugno 2008

Il rovescio della piazza: la piazza silenziosa


Segnalo un piccolo contributo scritto per Griselda-Repubblica.it (ed. Bologna). Eugenio

C’è una rozzezza nella visibilità dell’alzata dei confini, delle barriere divisorie, delle separazioni. Nuovi fili spinati, quasi un ritorno a una biopolitica sfacciata e pesantemente materiale, nell’epoca del luogo comune della smaterializzazione.

C’è una rozzezza nel rendersi visibile, fisico del controllo. Nell’epoca della raffinatezza e impercettibilità dei dispositivi e dei discorsi dell’ordine sociale, una sfrontatezza nell’uso della parola divisoria. Nel tentativo dell’annullamento della piazza e del contatto.

La piazza come possibilità di incontro e di urto, di rielaborazione dei dialoghi tra le persone, di conflitto e proliferazione della parola e dei discorsi, di evoluzione delle lingue, dei comportamenti. Questa piazza da sempre anche pericolosa. Luogo del molteplice per antonomasia. Ma non del caos. Il molteplice dialogico. Controllato, dall’arguzia del controllo. Da secoli.

È possibile stabilire un ordine nella molteplicità... (continua a leggere)

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17 giugno 2008

Amore che vieni, amore che vai

(nella foto, l'esito dell'ultima stretta di mano tra Uolter e Silvio)

da Buonipresagi, sempre più in forma.

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15 giugno 2008

Further down the spiral #2

Qual è il significato della pagliacciata pseudo-militarista appena evocata dal governo? Che valore aggiunto può portare alla “sicurezza”, uno sparuto contingente di 2500 soldati sparpagliati sull’intero paese? Apprendiamo dall’articolo odierno di Scalfari, che le forze di sicurezza, tra polizia, carabinieri e finanza arrivano a 300.000 unità. Ma allora perché questi inutilissimi 2500 uomini?

Bisogna constatare che la strategia è purtroppo la solita. Le “plebi” (non mi ricordo chi le definì così tempo fa) vedranno per strada qualche ragazzo in tuta mimetica col mitra in mano, qualche camionetta. Contemporaneamente le tv nazionali faranno per magia sparire il problema sicurezza. Ed eccoci proiettati nel paese della meraviglie. Il governo stavolta ci è stato a sentire. Il problema sicurezza è stato affrontato con rigore. L’esercito. Calci nel culo agli immigrati, finalmente. Ed ecco che le cose cambiano.

Ed ecco il potere della realtà virtuale. Nei giorni immediatamente precedenti il voto per il Comune di Roma, l'ologramma creato dai media nazionali aveva fatto della capitale una sorta di Gotham City, su cui l’ombra di una speranza possibile era soltanto quella lunga e nera del solito Batman, che poi è stato puntualmente eletto.

Beh, auguriamo alle masse xenofobe con la bocca schiumante di godersi la messa in scena. Nel frattempo assistiamo al desolante spettacolo di un parlamento dove sembra non ci sia neanche più opposizione. Ogni tanto Di Pietro si alza a fare qualche discorso alla Matteotti, da cui traspare un paralizzante senso di frustrazione e impotenza, che è anche il nostro. Eppure… (ma può un nietzscheano votare per un partito che si chiama “L’Italia dei valori”?!? Mah…)

Achille


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12 giugno 2008

fuori sede (da dietro)





Bologna.
Studenti fuori sede: non siamo elettorato, però...

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08 giugno 2008

Alcuni appunti di lavoro, riflettendo sul saggio di WM1 sul NIE

Non si può evitare di misurarsi con la questione dell’epica. Forse il modo più corretto di iniziare ad analizzarla è il punto di vista adottato dal testo comparso su buonipresagi:

«l’autore “neo-epico” agisce in un certo senso come i cantori dell’antichità: racconta versioni personali di storie note, le modifica, le integra con altre informazioni, le adatta al pubblico che ha di fronte. Stiamo sedimentando una storia d’Italia alternativa dalle opere, per esempio, di Saviano, Sarasso, di Genna, di De Cataldo? Io credo di sì».

Il riferimento all’epica tira in ballo una serie di problemi che sembrano molto attuali per l’analisi di questi romanzi. Innanzitutto, una nuova epica intesa come rinnovata fiducia nello schema eroe-destino, nuova presa sulla realtà, fiducia nella possibilità che una narrazione “mitopoietica” ispiri l’azione non deve mai dimenticare che la propria dimensione dovrebbe essere soltanto allegorica e non simbolica.

Il riferimento di WM1 all’allegorico in questo senso, manca proprio di un'opposizione al simbolico. L’idea (eh, anche questa benjaminiana) di affondare le mani nel continuum, farne saltare determinati momenti, determinate figure, per creare nel passato un’immagine della storia “differente”, che conservi la possibilità di un’alternativa e di un riscatto, può funzionare solamente se ci si mantiene in una dimensione allegorica, e non basta qui la distinzione dall’allegoria a chiave. La nuova immagine storica non dovrebbe cioè creare un riferimento simbolico unitario, anche se questo viene pensato come libertario e antagonista. Venendo alla pratica dei romanzi, laddove la narrazione si lasci imbrigliare nella convenzionalità dello schema eroe-destino, ovvero si privi della auto-consapevolezza della costruzione, e si abbandoni senz’altro agli stilemi dell’“avventuroso”, inevitabilmente la “storia” che si voleva salvare dal continuum ed opporre ad esso, ne diviene retoricamente parte, ornamento (“ornamenti dell’oscurità…”).

In altri termini, destituita della propria “ricerca”, ridotta a “mezzo”, la scrittura non aggredisce il reale, ma si limita a restituire quell’immagine della realtà che sta prima di essa nella mente dell’autore. Non “fa” il mito. Lo trasmette. La differenza è notevole. Per questo, tradurre il “fare poetico” di Aristotele semplicemente con “fare” è un bel rischio.

È un pericolo, una narrazione che rientri nel NIE dovrebbe tenerlo presente, perché è facile cadervi, o rimuovere il problema. Resistervi richiede un assoluto controllo della narrazione, una volontà di non indulgere mai, di non lasciarsi prendere la mano. Ad esempio, mentre un romanzo come Manituana riesce a non cadervi, controllando e indirizzando struttura, tematiche e linguaggio verso una criticità “vigile” (questa parola nel senso in cui la usava WM1 a proposito della ricezione del mito), un romanzo come l’ultimo di Carlotto (Cristiani di Allah), ne rappresenta il cedimento strutturale. Ovvero un abbandono a tutte quelle tendenze narrative narcotiche e autoindulgenti che spingono a fallire in pieno qualsiasi opera di costruzione di una immagine “storica” alternativa.

Un altro di questi “pericoli” potrebbe essere indicato nel recupero della pienezza del soggetto. La storia del romanzo è la storia della dissoluzione dell’io. Certo, l’esistenza paradossale dell’io quando esso stesso è già finito è una delle caratteristiche del romanzo postmoderno. Il problema è che se si pretende di recuperare questo io in quanto io-epico, il rischio (di cui hanno parlato anche Magini-Santoni nel loro intervento su Carmilla) è di neutralizzarlo nella sua complessità e trovarsi di fronte alla psicologia di necessità convenzionale pur nell’ “eroe scaduto a personaggio” (laddove “personaggio” non ha il significato critico di individualità immersa nel caos a-morale della contraddizione, ma di carattere disegnato e rispecchiante esattamente l’idea che un autore ha di esso, quando invece il rapporto tra autore e personaggio non può che essere “demonico”). Cosicché il vecchio Lukács (dalle mani grondanti di sangue – secondo qualcuno, addirittura) che si vorrebbe buttar fuori a calci dalla porta, rientra agile agile dalla finestra nelle vesti del giovane un po’ dandy e introverso dei suoi primi e misconosciuti scritti, affermando con sorriso romantico che “eroe e destino devono rimanere”.

Un po’ di tempo fa avevo scritto di una paradossale “epicità” del romanzo postmoderno, giacché l’epica stessa può essere considerata come qualcosa di contraddittoriamente instabile, caduco, transitorio di per sé. Essa dovrebbe infatti essere una manifestazione di unità tra essenza ed esistenza, un’immanenza del senso a se stesso, in cui l’io dell’eroe è espressione dell’io unitario dell’autore, dell’epoca, di un popolo, cui fa da referente una concezione del mondo definita, chiara, e “vicina” come le stelle del bel cielo della Grecia. Ma la narrazione epica, nel momento stesso in cui si immerge nel tempo, si narra, si incomincia, rinuncia a questo stato di unità ed entra nel mondo della contraddizione. La dimensione della sua esistenza è il luogo privilegiato dell’equilibrio tra queste due condizioni. Il romanzo contemporaneo si trova in una situazione simile, perché esaurito il percorso di disfacimento dell’individualità, giunto alla massima estraneità e lontananza tra personaggio, autore ed eticità, lascia coincidere la dimensione della sua esistenza con questo trovarsi in equilibrio precario con la propria sparizione.

Laddove si ricrea un universo definito, dove eroe e destino siano soltanto “eroe e destino” inconsapevoli del proprio trovarsi in una dimensione paradossale in cui la loro esistenza viene dopo la loro fine e dopo la coscienza della loro impossibilità; in una dimensione insomma in cui la loro possibilità non sia fondata sull’ironia (solidale, come diceva Bacthin “piena solidarietà con la parola parodiata”); allora eroe e destino scadono a personaggi e schemi, emblemi di una psicologia convenzionale che non può avere la forza della narrazione che “ispira” l’azione. Perché lungi dall’indicare nel mondo il trionfo del “falso” ne rappresenta la conciliazione, l’accettazione sotto forma di intrattenimento, dove anche i massimi problemi e la realtà stessa decadono a pura convenzionalità (“ornamenti dell’oscurità”).

Quello che sto cercando di dire, è che il discorso più volte emerso (ad esempio nel saggio di Girolamo de Michele su Carmilla), che continua ad assegnare al distacco e alla consapevolezza in letteratura l’oblio della “realtà” e della possibilità di agire su di essa, mentre indica appunto nel ritorno alla realtà e al “prendersi sul serio” la via verso una nuova etica del narrare, dovrebbe tenere conto del fatto che tale “ritorno alla realtà” è possibile soltanto attraverso l’amara accettazione della necessità ineluttabile proprio del distacco e della consapevolezza della scomparsa della pensabilità di un senso unificatore.

Il ritorno alla realtà intesa come realtà “là fuori”, “realtà vera, al di fuori delle mediazioni della letteratura”, mi sembra purtroppo non poter essere che una sorta di nuovo impressionismo, il via libera al flusso di una nuova mitologia, ma non naturale e spontanea, “genuina”, semmai “tecnicizzata”, imposta da quel “loro” che incombe nelle opere di Beckett, perché la realtà là fuori è sempre il “falso” che non si denuncia come tale, ma in se stesso accoglie e oblia la coscienza che avrebbe dovuto illuminarlo criticamente.

Achille


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05 giugno 2008

Caro Émile: (una parentesi di leggerezza)

In una pausa studio, finito di rileggere il saggio di Benveniste sulla - tra le altre cose - correlazione di soggettività “io-tu”, fuso dopo ore saltimbeccate tra un poco di Agamben, un poco di Flatus vocis e un poco di sparsi poeti in sparso ordine, mi pauso la sigaretta nel cortile di Vicolo Bolognetti.

Lì (adorato shifter) bambini delle elementari se la ballavano in gruppo, a suon di bongo, un tentativo di ballo africano: tutt’intorno, il parentame. Non solo era molto divertente, il tutto - e salvifico, per la mia mente che un po’ se la iniziava a spasseggiare - ma, vi dico - mi dico:

ci stava: pura estroversione del corpo (a cui, per esempio, io da bambino non sono stato educato mai, tant’è vero che poi ho scoperto i rave); allo stesso tempo: estroversione ritmata e controllata in gruppo: ruolo e spazio dipendevano da quelli dell’altro (le prossemiche, le distanze sociali, fatte salve pur nell’estro-vertere); ci stava un ritmo e una cultura che (rim)andava all’altro; ci saranno stati giorni di preparazione e di educazione al corpo: divertiti: (immagino);

ma, ‘tenti: era solo estroversione del corpo: i bambini non dovevano, evidentemente, parlare né sgridare, solo respirare: in una parte della dinamica coreografica i bambini si buttavano tutti giù per terra szittendo: «ssshhhhh»: ci stava pure il gioco del silenzio quindi (quello sì, ce l’ho pure io da bambino);

poi, nel crescendo regolato, il battere accelerava e tutti insieme (mi) esasperano la vertigine in un circolo a mani alzate e poi, come da scaletta, si liberano dalla scaletta, gridando a scelta e gironzolando estrovertendosi a libero arbitrio, infrangendo e rifrangendo prossemiche, rigirandosi e aritmando ed espettorando, fino agli ultimi battiti, che li sbatton lì fermi, in tensione, nell’applauso al disordine:

ecco, sì, si può educare al disordine?

: svolgesi poi dentro di me seguente dialogo:

- Si tratta, evidentemente, di un “noi” inclusivo.
- Ma vafanguuulo!

Ecco: un poco oppresso poi mi rileggo Le relazioni di tempo nel verbo francese

E.


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03 giugno 2008

Il teatro di Gomorra

Recentemente - in senso tabardiano (vale a dire circa un mese fa) - la Rai ha trasmesso in prima serata lo spettacolo teatrale di Gomorra per la regia di Mario Gelardi, la cui "riduzione" dal romanzo è stata affrontata in collaborazione con lo stesso Saviano. Da qui il pretesto per parlare di questa rappresentazione, cui ho assistito parecchio tempo fa a Scandiano (provincia di Reggio Emilia, nonostante il nome evochi paesi dell'entroterra campano), rinviando sempre a data da destinarsi una recensione.

Una premessa. Trasporre in un linguaggio diverso da quello del romanzo un'opera come Gomorra pone di fronte a grosse difficoltà. Da qui, secondo me, l'esigenza di distaccarsi il più possibile dall'originale. Questo perché, essendo il mezzo di rappresentazione diverso, essendo il linguaggio del teatro diverso per costituzione da quello del romanzo, un'eccessiva aderenza al testo comporta, inevitabilmente, degli scivolamenti grossolani. E proprio questo è, secondo me, l'errore che Gelardi e Saviano non hanno saputo evitare, realizzando uno spettacolo che, più che teatro, sembra essere una declamazione del testo scritto.

Ma parlavo di scivolamenti derivanti dall'eccessiva sudditanza al testo. Questi possono essere comodamente sintetizzati in tre aspetti in stretta correlazione tra loro: infantilismo, didascalicismo, dilettantismo. E vado a spiegarmi...

Nel suo non riuscire ad andare oltre il testo di Saviano, la "riduzione" teatrale di Gomorra palesa una sorta di complesso di inferiorità rispetto alla parola scritta. Ne deriva la sensazione che l'intero lavoro sia stato approntato come un gioco alla semplificazione, secondo una prassi logora che vede nell'azione scenica un mero strumento di illustrazione del testo. Ed è per questo che la Gomorra teatrale appare didascalica (nel senso più bieco del termine), quasi al livello - a voler essere duri - di una rappresentazione per scolaresche. Ed è per questo che ho virgolettato la parola "riduzione".

Questa mise en scène tradisce infatti una vocazione missionaria, educativa ma in maniera dottrinaria. Come a dire: "guardate quant'è brutto il mondo là fuori, che solo noi conosciamo, e che vogliamo farvi evitare". Anche la scelta (che inizialmente avevo stimato) di sviluppare la tournée, dopo il debutto a Napoli e la rappresentazione al Valle di Roma, nel circuito dei teatri minori e di provincia, mi è sembrata poi profondamente in linea con questo approccio.

E da qui veniamo al terzo punto. La caduta nelle grossolanerie che ho precedentemente descritto rappresenta, a mio avviso, il naturale approdo di chi ha affrontato un materiale enorme su una base dilettantistica. Io non sono un patito dei professionismi, ma non mi piace nemmeno l'idea che una "produzione artistica" sia realizzabile da chiunque. Occorrono lavoro, preparazione e competenze. La pièce di Gomorra sembra invece allinearsi con tanto teatro italiano attuale, che si fonda sul trasferimento sul palco di alcuni volti noti della tv e del cinema. E per questo - mi si perdoni - non amo mai vedere gli attori che alla fine della rappresentazione applaudono il pubblico, quasi a dire "qui potevate esserci anche voi". Cosa che ho visto accadere anche alla fine di questo spettacolo.

Per il resto, alcuni pregi: buone alcune scelte registiche, in particolare la separazione del palco in due aree, una bassa e una alta, con le azioni che andavano progressivamente incrociandosi sui due livelli. Un po' usurato, anche se non proprio sgradevole, il riallacciarsi ad un universo immaginifico tipicamente cinematografico.

Vittorio Martone


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01 giugno 2008

Attenzione all'epica: su Stella del mattino di Wu Ming 4

In Tabard c’è un lavoro in corso (ce ne sono molti, ma qui ce ne interessa per ora solo uno). In attesa di un intervento più formulato e “chiaro” sulla New Italian Epic, cercherò di ordinare alcuni veloci appunti di lettura su Stella del mattino di Wu Ming 4, libro molto interessante e molto ambizioso, a cui, a detta degli stessi Wu Ming, «l'intero collettivo ha affidato profonde riflessioni sul proprio percorso». È il romanzo che affianca il saggio di Wu Ming 1, non come semplice “applicazione” di riflessioni di lunga data, ma problematicamente.

Devo confessare che, durante la lettura, a intervalli regolari, dicevo al romanzo: attento, per favore. Che leggendo molte pagine scuotevo la testa, contariato. Che ho annotato in calce ad altre “giudizi” non proprio positivi (poi smentiti, se spiegati: ci arrivo subito). Che poi un personaggio in particolare ha incarnato le mie obiezioni (ancora una volta evviva Bachtin, e l’inclusione della possibile parola polemica del lettore: si tratta di Lewis, tipicamente razionalista e illuminista, e poi della lucidissima femminista Nancy Nicholson). Confesso che poi ho tirato un sospiro di sollievo. (Intanto, qui, la trama)

Dicevo che Stella del mattino affianca problematicamente il saggio sulla NIE. Io l’ho letto come un romanzo sul pericolo dell’epica ricostruttiva, sul pericolo della “nostalgia dell’assoluto”. Voglio continuare a interpretarlo così, anche se molte volte rischia lo stesso pericolo che cerca di raccontare (di qui gli attento). Nell’intervista rilasciata a Genna, l’autore dice: «credo che Stella del mattino non sia tanto un romanzo epico in senso stretto, quanto piuttosto un romanzo sull'epica, che racconta quanto l'epica c'entri con la nostra vita».
Ecco. Però non quest’epica, che rappresenta invece il pericolo di cui sopra: «prendere atto di ciò che si è, capire che il destino è “ciò che va fatto” perché è scritto in come scegliamo di leggere le nostre stelle» (così Monica Mazzitelli nella sua recensione). Perché è proprio quest’epica a farsi portatrice di un discorso unitario, volontaristico, essenzialistico e un poco romantico. Molti personaggi sono inclini a caderci (di qui i no di testa e i “giudizi” di cui sopra).

Poi però Lewis: «Solo Dio è più a buon mercato».
Stella del mattino si tiene grazie alle sue qualità compositive. Stringe un cerchio di personaggi intorno al (plurivirgolettato) “eroe”, Lawrence d’Arabia. Quest’ultimo è il cronotopo delle inquietudini psicologiche dei personaggi. Dei loro slanci e tentativi di “salvezza”. È il campo di forza su cui essi agiscono e specchiano (in positivo o in negativo, Graves o Lewis) le loro ansie di ricostruzione identitaria ed esistenziale. Lawrence è la possibilità di un’epica totalizzante e unitaria a cui abbandonarsi per dare un senso allo sgomento di reduci della prima guerra mondiale. Il romanzo sfalda questa possibilità, ne erode le fondamenta sviscerandone le contraddizioni: se un’epica è possibile è quella che lotta con le contraddizioni, alla luce di queste: nella critica.

Stella del mattino è un romanzo sull’importanza delle narrazioni contro le metanarrazioni (mi si conceda di conservare il postmodernismo critico).
Non è un caso che sia ambientato ad Oxford subito dopo la prima guerra mondiale. In Hobsbawm leggo che «un quarto degli studenti di Oxford e Cambridge sotto i venticinque anni che prestavano servizio militare nel 1914 vennero uccisi». Per Benjamin è dalla prima guerra mondiale che inizia quel processo che porta al tramonto dell’arte di narrare e dell’esperienza comunicabile: «Non si era visto, alla fine della guerra, che la gente tornava dal fronte ammutolita, non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile? [...] Poiché mai esperienze furono più radicalmente smentite di quelle strategiche dalla guerra di posizione, di quelle economiche dall’inflazione, di quelle fisiche dalla guerra dei materiali, di quelle morali dai detentori del potere. Una generazione che era ancora andata a scuola col tram a cavalli, si trovava, sotto il cielo aperto in un paesaggio in cui nulla era rimasto immutato fuorché le nuvole».

Oxford è l’altro cronotopo perfetto per l’esplosione delle contraddizioni. In un paesaggio mutato, poeti, studiosi, narratori reduci cercano di tirarsi addosso le coperte di un’immutabile Arcadia, di un Parnaso in cui assopire i propri mostri. Il cronotopo dell’ipocrisia istituzionalizzata non regge l’equilibrio manchevole di vite sospese sull’orlo di allucinazioni, incubi, flash improvvisi della catastrofe, nevrosi.
Ancora una volta: in Lawrence ricercano la tradizione della narrazione che «porta “consiglio”». La scena in cui Lawrence si fa narratore «al tepore di quell’unione d’anime, eletta a platea intorno al fuoco» si specchia nella scena che apre il libro: una carovana d’uomini nel deserto che al tramonto s’accampano e s’addormentano con la «consolazione di una storia», narrata dal più vecchio: il racconto della rivolta araba.

Eppure se in Lawrence i personaggi del romanzo cercano di destinare la possibilità della ricostruzione di un senso unitario che la loro esistenza non rende possibile, è nella stessa storia di Lawrence l’impossibilità di quel senso. In lui cercano l’esperienza non più smentita di una guerra che riconquisti significato (nella rivolta di un popolo); nella rivolta araba cercano l’epica della guerra giusta, della «bella morte», per riscattare l’incubo dei morti che assilla i sopravvissuti. Una narrazione come «incanto di un viaggio dove le leggende avevano ancora un nome e le cose erano semplici e dirette come la vita o la morte».
Ma è la stessa ricerca che sta conducendo Lawrence. È una ricerca impossibile, minata alle fondamenta. Lawrence è già un mito, e deve cercare di decostruire questo mito che non può indossare. Deve cercare di continuare la sua lotta con un libro, ma è lacerato dalle contraddizioni che non può ri-comporre. «Ho imbrogliato loro e me stesso. È questo che dovrei scrivere, quanto mi è costato. Difficile conciliarlo con l’epos della rivolta»

Cosa succede? Come si risolve questo campo di forze che tende a una ricostruzione ma non può? Tutti i personaggi riscoprono il valore della narrazione come ri-configurazione. Apparentemente il romanzo si chiude con un’apertura alla speranza (quell’«incanto» di cui sopra) che cade nel pericolo ricostruttivo, da ritorno all’“ordine”. Ma i protagonisti, come il romanzo, come il lettore, hanno inglobato la contraddizione. La narrazione ri-configura i fatti nell’ordine del mythos, la loro com-posizione sarà sempre «sintesi dell’eterogeneo»: ma se relaziona le contraddizioni, quest’ordine potrà proiettare un mondo aperto dalle faglie della critica: che corroderà il senso unitario. Questo romanzo affronta i suoi rischi compositivi in maniera molto riuscita e complessa, intrecciando pulsioni molteplici e pericolose con la consapevolezza che ogni narrazione può trasformare consolatoriamente i mostri in favole, ma che la «realtà
» molteplice «trasfigurata in favola» (in fabula... e in mythos) sempre cercherà «una via del ritorno».

L’ho interpretato tabardianamente, mi rendo conto, spero di non averlo forzato e aperto lì dove può essere tenda a una ricomposizione assolutizzante.
Ci sarebbero tantissime cose da dire, vorrei aggiungere solo una postilla:

In molti punti mi sembra che il romanzo tenda a uno psicologismo molto spicciolo e stereotipato (di qui alcuni miei no contrariati). E però nel corso della lettura questo psicologismo funziona in maniera particolare (e corale: le psicologie di ogni singolo personaggio si sommano a dare l’immagine psichica dell’incubo del reduce: ecco che il romanzo funziona grazie alla composizione di questi tratti psicologici).
Quegli psicologismi che a volte mi sembravano cadere nel banale, in accumulo, sono funzionali all’“ordine” del romanzo. Si tratta, così le definirei, di “psicologie di superficie”, come un avvicinarsi passo passo verso qualcosa, che di sicuro vuole essere senso, che riparte dal “semplice”, lega semplicità analitiche della psiche, per ottenere una configurazione che si rinsaldi in una «seconda vita» auspicata dai personaggi. «Dove si poteva andare dopo un cataclisma come quello? Alla fine della lunga notte sarebbe sorta una stella del mattino a indicare la via?». I personaggi cercano di affrontare la sopravvivenza al cataclisma, ma non possono fino in fondo e il romanzo ci dà frammenti in cui tentano di ri-dire quelle cose “semplici” (cioè non rese complesse da troppe relazioni verso il basso, verso il profondo) e di ripartire da lì per creare un’Arcadia protettiva (con l’esito che abbiamo detto).

Insomma: molte volte questo romanzo dice «ti amo» fregandosene di Liala. E questo mi ha fatto riflettere su una cosa banalissima, e cioè questa: io lettore però conosco Liala. Io lettore conosco quei codici. Stella del mattino risolve bene quello psicologismo di superficie, ma colgo l’occasione qui per porre dei problemi. Sono d’accordissimo nel voler recuperare «quelle tonalità emotive» di cui si discute nel saggio di WM1. Però stiamo attenti a non gettare a mare TUTTA la carica critica del postmodernismo e a non tornare al cliché. Non tornare alla forma.

Riporto una parte della mail di un tabardiano (Mimmo Cangiano, qui nel blog colpevolmente assente, ahi): «Dire “come direbbe Liala ti amo” non significa fare “ironia fredda”, significa messa in discussione del già dato; dire “come direbbe Liala ti amo” significa, alla grossa, decidere di rompere con Parmenide, è una frase che si incammina in direzione di un pluralismo (per sua stessa necessità sempre manchevole) che non si risolve in unità. È ancora una volta l’idea di una Storia che ingloba un’attitudine criticante, non rinuncia alle vecchie abitudini ma le rende più deboli: ma indebolire non vuol dire deresponsabilizzare, vuol dire criticare».
Cito, in aggiunta, la Mizzau: «l’ironia è complessità, varietà, pluridimensionalità; senza di essa il nostro parlare sarebbe piatto e incolore, i nostri discorsi sarebbero sempre uguali a se stessi, impraticabili per l’usura».
Ecco, oltretutto il “come direbbe” non esclude la veicolazione di quelle tonalità emotive: «Attraverso il “tono ironico” possiamo scusarci della ridondanza che hanno certi sentimenti che tornano così a essere esprimibili» (corsivi miei). Dunque il come è già nonostante.

Eugenio Santangelo

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