21 settembre 2008

Morta la disciplina, se ne sarebbe dovuta fare un’altra (tutto qua)


È un problema della mia ‘costellazione’, oppure é un riflesso dei tempi, oppure semplicemente c’est la vie, se leggo Antonio Scurati, su Tuttolibri, e invece di pensare ai più scontati riferimenti culturali per parlare della comparatistica oggi (Gayatri C. Spivak, con Morte di una disciplina, oppure, mettiamo, T. Todorov con La letteratura in pericolo) riesco soltanto a pensare a Giuseppe Conte.

Giuseppe Conte, per la precisione, che cammina pensoso per le quinte di “Veline” e consola una delle ragazze eliminate. Nell’immagine successiva, Giuseppe Conte che lo scrive, con penna ferma e intenzionalmente “autoironica”, per il “Giornale”.
(E poi Andrea Cortellessa che per tutto questo fornisce un’interpretazione plausibilissima, in Parola Plurale.)

Il che é come dire che non mi rimane quasi niente delle considerazioni di Scurati e che gradualmente perdo ogni empatia che avevo stabilito con il suo incipit, davvero fulminante – un effetto stilistico garantito, del resto, a chi si muove costantemente in cerca di definizioni epocali (vedi alla voce ‘Inesperienza’):

“Al giro del nuovo millennio si discusse molto nelle università italiane della necessità di un nuovo canone letterario. Si capì, finalmente, che lì dove andavamo il canone nazionale tradizionale non ci avrebbe seguiti. Si discusse molto di un canone aperto, globale, di una riforma dell’insegnamento universitario nell’ottica della comparatistica interlinguistica, interdisciplinare. Si discusse, poi non se ne fece niente. Il canone evaporò, il matrimonio tra l’istituzione letteraria e l’educazione delle nuove generazioni non si fece. E, se si fece, non venne consumato. Rimase il mercato.”

Quella di Scurati è senza dubbio una scrittura tranchante, abile nell’individuare la minaccia costante del romanzo globalizzato rispetto al romanzo globale (e, in senso lato, dell’umanesimo globalizzato, che attinge al supermercato della multiculturalità, direbbe uno Žižek, ma non sa capirne le dinamiche, né situarvisi veramente, rispetto all’umanesimo planetario invocato da Spivak) e la crisi del matrimonio tra l’istituzione letteraria e l’educazione delle nuove generazioni.

L’esempio fornito da Scurati di questa situazione culturale é la disperazione dei giovani laureati, soprattutto se nelle deprecabili materie umanistiche – i quali, messi di botto (o di nuovo) di fronte alla precarietà, tornano a ricevimento dai professori con i quali hanno lavorato per la tesi con questa domanda che preme loro in gola:

“E adesso... che faccio adesso? Mi rendo conto che non sono affari suoi... Ma che ne devo fare della mia vita?”

Un esempio che, anche per il sottoscritto, suona di una verosimiglianza lacerante.

Se, però, l’immagine di Giuseppe Conte presidente di giuria della finale di “Veline” incombe sulle parole del Nostro è anche perché, probabilmente, le argomentazioni a supporto – che saranno presentate più compiutamente in un dibattito pubblico con Filippo La Porta e Tiziano Scarpa, a Palermo, il prossimo weekend, nel contesto del premio MondelloGiovani – non collimano con questa ouverture brillante, ben scritta e criticamente arguta.

Non convince, per esempio, l’attacco, peraltro implicito, portato al pensiero debole che si è insinuato nella comparatistica, cercando di riaprire un canone in precedenza chiuso e asfittico, e nell’insegnamento universitario in genere.

Può darsi, sì, che aver tentato di decostruire, o semplicemente di rielaborare e rinnovare, il canone abbia esposto i suoi elementi (ora dispersi, ora labilmente collegati in temporanee ‘costellazioni’ anti-essenzialiste) alle esigenze di mercato – creando fenomeni editoriali come la letteratura indiana in lingua inglese, o certo realismo magico sudamericano di ritorno, ma non sostanziandone la lettura con un’adeguata formazione e informazione sul background culturale, storico e politico sulla quale queste opere si stagliano.

Può essere, e anch’io spesso mi ripeto la formula d’esorcismo “debole, ma non coglione”, che può aiutare ad andare avanti, però... Però dietro le parole di Scurati, qui, spunta l’ultimo Todorov e tutto un filone critico d’estrema attualità, che pur di gettare a mare le storture del ‘68, getta a mare anche strutturalismo-e-seguenti – rei, sostanzialmente, ‘di averci complicato le cose, a tutti’...
Ebbene, la letteratura non sta, o non sta solo, correndo questo pericolo, eminentemente pedagogico.

Il canone, per esempio, non è ‘evaporato’. Non ci sono proposte ‘forti’, questo è vero, ma la discussione sul da farsi è fitta, forse fin troppo. La proposta di un nuovo “canone della giovinezza”, per contro, cozza contro alcuni semplici dati di realtà: per riscrivere il canone, bisogna averlo letto, e l’attuale insegnamento scolastico trova difficile, per mille motivi, farlo leggere.

Scurati non mi persuade, quindi, perché manca completamente – almeno in questo estratto pubblicato per ttl – di uno sguardo anche minimo sullo smantellamento dell’università. Operazione che non è imputabile solo a don, pardon, alla signora Gelmini, ma che risale alle mefistofeliche imprese di Ortensio Zecchino, Luigi Berlinguer & Co., ormai vecchie di un decennio. Se i giovani laureati cadono senza rete nella precarietà sociale, è anche perché sono passati per un esamificio, non per l’università, perché dentro l’università non ci sono prospettive serie né di lavoro di ricerca, perché l’università non migliora la condizione di vita di chi la fa, rispetto ai genitori.

Nozionismo e immobilismo sociale, insomma. E certe aule assomigliano a grandi, immensi parcheggi. Manca la scritta (che potrebbe essere benissimo ‘Coop’.)
Se, da un lato, mi attrae l’affondo contro la precarietà sociale, non capisco il romanticismo di riflusso che ne consegue, romanticismo dal quale Scurati vorrebbe mettersi al riparo, evidenziandolo con distanza critica e ironia, ma al quale poi finisce per soggiacere. Scrive, infatti, di una precarietà che costringe i giovani alla “prosaicità” della loro “datità sociale”, nel quale non si ha bisogno della “precarietà esistenziale”, in qualche modo “più poetica”, che si insegna attraverso un’adeguata formazione e informazione letteraria.

Dall’alto della stessa datità, non vedo perché precarietà sociale e esistenziale non possano andare di pari passo, perché dare degli ignoranti a laureati che magari lo sono – vedi la marea di giornalisti, dentisti e avvocati che non prendono un congiuntivo uno – ma ai quali non si vorrà negare un’analisi lucida della loro condizione. E un poco di poesia, almeno.

Che abbiano o no un canone letterario (italiano) della giovinezza come riferimento.
Dulcis in fundo, Scurati ci propina la rievocazione elegiaca del professore che allo studente in disperata ricerca d’aiuto offre un libro gualcito estraendolo dal cassetto:

“Té, leggi questo. É tutto qui dentro”

Grazie dell’aiuto. (“Té”...?!)

Nella speranza che, conoscendo il professore, non si tratti di un (suo) romanzo storico.

Comunque, si diceva di Giuseppe Conte.
Giuseppe Conte.
Nessuno vuole negare il diritto di una persona ad avere “un’ora di divertimento (sic) fuori dal suo solito mondo”, obbligando l’intellettuale alla sobrietà monastica cui si riducevano, ridicolmente, certi paladini del veteromarxismo, alcuni decenni orsono.

Però, fatelo; non ditelo, non giustificatelo. Quello che si accennava per il critico Steiner valga anche per il poeta-presidente di giuria Giuseppe Conte.

C’è una grande urgenza di sdoganamento, in giro (vedi alla voce, neologica, ‘non-antifascismo’), e il poeta sdoganato sul palco di ‘Veline’, come a suo tempo il sedicente ‘poeta del Grande Fratello’, esprimono una gran voglia di sdoganare l’ignoranza in televisione (facendola legittimare da un personaggio della Cultura, meglio se un Poeta), dopo esserci riusciti, significativamente (ultime elezioni: sul 7-8%...) nella politica.

Una eccessiva “autoironia” potrebbe dare il vero colpo finale alla coppia istruzione letteraria-educazione delle nuove generazioni.

Incredibile, per certe cose a volte il liberissimo mercato da solo non basta.

Lorenzo Mari


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17 settembre 2008

Un assaggio di Psiche

I primi a sentirlo sono stati anche stavolta i francesi presenti il 5 settembre alla Salle Pleyel, ma a sorpresa l'ultima canzone del nuovo album di Paolo Conte, Psiche, è dedicata a Berlino, una Berlino su cui fin dal primo verso cade “una pioggia spagnola”. La topografia di Psiche è mescolata e sentimentale, qua e là si aggirano senza meta personaggi emarginati, solitari, in generale più pensierosi del solito, a bordo di mezzi consueti (biciclette) o accompagnati da strumenti invece tutt'altro che usuali nelle canzoni di Conte (sintetizzatori). Il nuovo album, distribuito da Universal e ormai di prossima uscita anche in Italia (dopodomani), vira – non clamorosamente, anzi con un certo passo felpato – verso sonorità più fredde e artificiali, che sembrano voler zittire ogni retorica.

Si parla dei sentimenti, i soliti, l'amore, ma guardati con l'occhio lucido di Psiche questa volta. I temi musicali restano saldamente nelle mani di pianoforte, violino o violoncello, mentre ai “nuovi” strumenti è dato di tratteggiare l'intorno. L'atmosfera rimane sospesa, si aspetta per tutto il disco che “succeda qualcosa”, e poi le accensioni si concentrano inevitabilmente nei personaggi e nelle rime che riconosceremmo ovunque come “paolocontesche”: un sole zulù, un capo lontanamente indiano, una variopinta artista del circo, Ludmilla (“se io faccio un fischio chi si volta è la cavalla”). I testi delle canzoni che si appoggiano a figure e storie collaudate danno la sensazione di voler distogliere l'attenzione degli ascoltatori dalle novità del percorso musicale, che da un lato sembra incerto, dall'altro si sa che è inutile aspettarsi svolte brusche dall'Avvocato: “qui si recita/ senza né follie né serietà” (che, nella lingua di Conte, fa rima). Si resta soprattutto curiosi di sapere dove porterà allora l'ultima direzione presa, e certo questo è per forza un merito, che con quarant'anni di carriera musicale alle spalle Paolo Conte sia ancora capace di far sì che il suo pubblico si chieda cosa ci sarà “dopo”.

Daria


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16 settembre 2008

Adesso vi faccio vedere come muore un italiano



Abdoul Guiebrè, diciannovenne italiano ucciso a Milano
alle 6 del mattino dello scorso sabato

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15 settembre 2008

Un caffé (e anche di più) per tutti i '68 che non ha fatto


Io se leggo un appello di Marco Paolini sul Corriere della Sera alla domenica al bar davanti a caffé e brioche di solito ci credo.
Che volete, sono fatto così.
L’appello di ieri, domenica 14 settembre, diceva: “Salvate il poeta Federico Tavan”. Ed era più grande degli altri titoli, di uno che era monarchico-mondano: “Tanti balli e omissis in casa Savoia” e di uno che era ideologico-reverenziale: “Allam, Appelfeld e Vitali: il “Boccaccio” della tolleranza”.
Il titolo di Paolini era bello grosso. Meno male! Quello della tolleranza non mi piaceva poi molto...

E poi era anche un bel pezzo, quello di Paolini, si vede che il tizio è il migliore, in giro, a recitare, che ci ha la verve, e il carisma, anche. Eppoi è sempre in TV e questo non può succedere mica per niente: lui ha trovato la via per riportare il teatro in tv, grazie a Dio, che ci voleva, un po’ di cultura...

Insomma, dicevo. Anzi, era Marco Paolini che diceva questo: che ha un amico che è un poeta, che è un matto, che questo amico in questo periodo non se la passa proprio bene bene. Si chiama Federico Tavan, l’amico, è friulano e scrive in friulano (che è più una lingua che un dialetto, come mi ha spiegato una ragazza friulana, ieri, sempre al bar; guardava il giornale al di sopra della mia spalla). E siccome Federico Tavan non se la passa proprio bene, gli servono dei soldi per campare e il vitalizio Bacchelli come soluzione non sarebbe, ecco, malaccio.

Molti amici suoi, tra cui Paolini, e anche non amici, ma del giro, hanno firmato un appello per dargli il Bacchelli. Ci stanno Carlo Ginzburg, Peter Handke, Jacques Le Goff, Predrag Matvejevic, Carlos Montemayor, Carlo Magris, Paco Ignacio Taibo II... Carlo Magris ha anche scritto questo, per Tavan: “Federico Tavan è il poeta maudit, trasgressivo-innocente, socialmente irregolare e indigesto, segnato da emarginazioni e incline, come molti autori del suo stampo, a farne uno stile ostentato di vita, ma capace di scendere al fondo delle parole e di andare a picco nel disagio.”
Tipo Alda Merini, insomma, ma senza Vincenzo Mollica in mezzo ai coglioni.
Senza la spettacolarizzazione.
Tipo Dino Campana, ma remixato con Pasolini (Pier Paolo é di Casarsa, dice la ragazza friulana, che ne sa, di ‘ste cose.)

Che bello... Allora traggo conclusioni.
I poeti xé tuti mati. E gli scemi del villaggio son sempre dei saggi, e dei santi bevitori.
Che bello. Anche se sono due generalizzazioni, magari per Tavan valgono.
Oppure vale solo il parallelo – con i dovuti distinguo – con Alda Merini e Dino Campana.
E allora dateglielo, per una o per l’altra cosa, il Bacchelli, mi dico.
Lo dico, con gli occhi, alla ragazza friulana.

Poi torno a casa, neanche faccio da mangiare, e vado su Internet e trovo questa poesia, cercando ‘Federico+Tavan+poesia’ su Google (mi sento un po’ uno stupido a cercare un tizio su Google, sapendo che c’è una ragazza friulana che è sua vicina di casa, praticamente, e che l’ho incontrata oggi al bar, leggeva il giornale al di sopra della mia spalla, ma insomma...)

In questa poesia, Tavan usa l’espressione ‘poesie del cazzo’ dopo l’espressione ‘montagne di silenzi’. A Tavan i suicidi “non sono venuti bene”. Dice di non averne mai fatto, dei ’68. Probabilmente, non ne ha mai fatto, né dei ’68 che giravano fino all’altro giorno né dei ’68 che girano oggi. Dei ’68 molto diversi.
Forse sovrainterpreto, ma non sono un gran lettore di poesia.
Ma un caffé glielo offrirei.
E anche il vitalizio, dov’è che si deve firmare che firmo anch’io.

Un caffé soprattutto gli offrirei, a lui e ai miei amici, tra cui la ragazza friulana.

Lorenzo Mari


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Di montagne di silenzi
di poesie del cazzo
di donne che non mi hanno voluto
di '68 che non ho fatto

Di montagne di amici
che non mi hanno più scritto
di suicidi non venuti bene
non mi resta niente.
Mi sono solo un po' ingrassato

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Federico Tavan


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09 settembre 2008

No Steiner No Cry!


L’album mediatico di questa estate vorrebbe essere il classico album, maschile e maschilista, di sport e di guerra.

Europei Olimpiadi sciovinismo nazionalista boicottaggi vari (tanto sbandierati, ma poi praticati in modo tardivo, laterale, ipocrita).
I muscoli di Phelps le piume di Bolt le pagaiate di Josefa Idem (e Roma-Napoli).
I militari per strada (e Roma-Napoli).
Cina contro Tibet Italia e Libia contro i migranti Ossezia del Sud Abkhazia e Russia contro la Georgia (e contro gli Stati Uniti – o viceversa).

Ma c’è una notizia che non centra nulla con tutto questo, che nella sua quotidianità, nella sua piccolezza e nel suo ridicolo sorpassa tutte le altre iperbolerie e si impone all’attenzione, quantomeno nei salotti bene – che non sono mai da trascurare, con tutto il male che dicono e che fanno....

“Il critico letterario George Steiner non sopporta i suoi vicini giamaicani di Londra, perchè passano le loro giornate ad ascoltare reggae e rock and roll a palla, a volumi insostenibili per le sue orecchie abituate a Schubert, e per questo si trasferisce a Cambridge. Poi rilascia un’intervista al Pais e si giustifica, dicendo che agire in questo modo non è sintomo di razzismo.”

Apriti cielo: una serie infinita di commentatori benpensanti condannano Steiner, una schiera non meno nutrita – ormai! – di editorialisti che dichiarano di non “abboccare” alla retorica del politicamente corretto lo difendono (non ultimo un altro insospettabile, Ferdinando Camon, sulla Stampa).

Come diceva spesso e volentieri una mia professoressa del liceo, indulgendo nell’errore per una qualche remota esigenza didattica a lunga gittata: “è ora di finiamola”.

È ora di finiamola con chi subodora razzismo e xenofobia ogni volta che ci si pone in modo diverso dalla vulgata tollerante, per l’aver toccato con mano i vantaggi ma anche gli svantaggi della cosiddetta ‘convivenza interculturale’. Tacciare di razzismo posizioni diverse dalle proprie è proprio questo: tacciare.
Non una grande base, né di dialogo né di conflitto.
(Una posizione molto arguta è stata quella del professor Robert Berkeley, esperto londinese di pari opportunità, giustamente riportata dal Corriere: “Penso che un individuo faccia bene a riconoscere le proprie pulsioni razziste, per poterle affrontare. Parlarne come fa Steiner è utile a tenere vivo il dibattito, sempre che non si prenda di mira una comunità come ha fatto lui”).

È ora di finiamola, però, anche e soprattutto con chi non sopporta il buonismo e il politically correct, e lo fa per principio. Dai Ferrara ai Battista giù giù fino ai “moderati di sinistra” (e giù giù forse fino a Steiner). Anche qui la parola è rivelatrice: chi non accetta il politicamente corretto per principio, vuole per contro poter agire fuori dalla correttezza politica.
E la correttezza, una volta, non era qualcosa di tanto forte da potersi assimilare a un ‘valore’, nell’agone politico, però a qualcosa indubbiamente serviva... Della serie: non eravamo così populisti...

Non accettiamo più neppure il giustificazionismo: chi dice “non sono razzista ma...” evidenzia un’attitudine razzista, che poi vuole mascherare, con un abile gioco linguistico (perché essere razzisti al giorno d’oggi nessuno lo vuole e lo può essere) ma che rimane latente in ogni suo discorso. “Non sono razzista ma...” vuol dire “non voglio apparire razzista ma temo che quello che dirò di seguito mi collocherà automaticamente o mi potrebbe far collocare nel campo del razzismo, e non mi voglio assumere questa responsabilità”. Si dica piuttosto, se si sente davvero questa coazione sociale a non dichiararsi razzisti: “Io non sono razzista e penso che...”
Un cambiamento retorico che potrebbe essere, credo, di peso.

Con le ultime osservazioni si spiega, secondo me, anche il razzismo sotteso alle parole di Steiner. Steiner ha fatto benissimo a traslocare in altro posto, volendo e potendo cambiare le proprie condizioni di vita. Ma che lo giustifichi, e senta il dovere di farlo, etnicizzando le cause del suo disagio, questo sì che sa, neanche troppo velatamente, di razzismo.

In effetti, lo stereotipo del vicino giamaicano rumoroso, festaiolo e alcolizzato (oltre che sporco, povero e criminale) spopolava a Londra già dai tempi di Notting Hill, negli anni Sessanta e Settanta. Qui trova una sua nuova incarnazione: perché il disagio di Steiner dovrebbe essere imputabile in toto ai “giamaicani”? Se avesse avuto dei vicini di casa neofascisti con la passione dell’heavy metal o dei vecchietti americani mezzo sordi con la passione del country, le sue orecchie affinate grazie all’ascolto di Schubert o di Brahms non ne avrebbero avuto lo stesso disturbo?

La distinzione, se c’è, tra le due situazioni è di ordine economico: come si legge nella messe di articoli derivata da questa, peraltro bella, a tratti splendida, intervista a tutto campo di Steiner al País, il fatto di vivere vicino a dei giamaicani stava deprezzando enormemente il valore di casa Steiner – un po’ quello che succede con i campi nomadi in Italia: Steiner perlomeno ha avuto il buon gusto, fin troppo relativista e umanista, direbbe un Marcello Pera, di non dare fuoco alla casa dei vicini!...

Tutto di guadagnato, quindi, nell’andare a vivere a Cambridge, lasciando che le politiche inglesi di ghettizzazione urbanistica e sociale facciano nuovamente il loro corso: i giamaicani con i giamaicani, i polacchi con i polacchi e i professori di Cambridge con i professori di Cambridge.

E se poi viene qualcuno (magari un giornalista bianco, maschio, spagnolo, progressista) lo si accoglie con dell’ottimo hummus libanese.

(Fra parentesi, che invidia, Juan Cruz!)

Lorenzo


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