30 luglio 2007

Finisca in parità

«Spero di non diventare mai così vecchio da trasformarmi in religioso»

Ingmar Bergman (1918-2007), figlio del cappellano della Corte Reale.

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27 luglio 2007

La fine e l'inizio

(Una poesia della Szymborska per tenere in vita il blog in questa calda estate)

Dopo ogni guerra
c'è chi deve ripulire.
In fondo un po' d'ordine
da solo non si fa.

C'è chi deve spingere le macerie
ai bordi delle strade
per far passare
i carri pieni di cadaveri.

C'è chi deve sprofondare
nella melma e nella cenere,
tra le molle dei divani letto,
le schegge di vetro
e gli stracci insanguinati.

C'è chi deve trascinare una trave
per puntellare il muro,
c'è chi deve mettere i vetri alla finestra
e montare la porta sui cardini.

Non è fotogenico,
e ci vogliono anni.
Tutte le telecamere sono già partite
per un'altra guerra.

Bisogna ricostruire i ponti
e anche le stazioni.
Le maniche saranno a brandelli
a forza di rimboccarle.

C'è chi, con la scopa in mano
ricorda ancora com'era.

C'è chi ascolta
annuendo con la testa non mozzata.
Ma presto lì si aggireranno altri
che troveranno il tutto
un po' noioso.

C'è chi talvolta
dissotterrerà da sotto un cespuglio
argomenti corrosi dalla ruggine
e li trasporterà sul mucchio dei rifiuti.

Chi sapeva
di che si trattava,
deve far posto a quelli
che ne sanno poco.
E meno di poco.
E infine assolutamente nulla.

Sull'erba che ha ricoperto
le cause e gli effetti,
c'è chi deve starsene disteso
con una spiga tra i denti,
perso a fissare le nuvole.

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14 luglio 2007

Griselda



Continua la proficua collaborazione tra alcuni compagni tabardiani e GriseldaOnLine, il portale di letteratura dell'Università di Bologna responsabile anche della pagina culturale della sezione bolognese di Repubblica.it. Proprio per questa sezione, nell'ultimo numero dal tema "I Giovani", hanno scritto Achille, Marco, Mimmo e Andrea. Un articolo di Vittorio dovrebbe invece essere disponibile la prossima settimana. Come sempre, ogni commento agli scritti è benvenuto sulle pagine del blog. Buona lettura.

Paolo

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11 luglio 2007

Otto cose

Un buco di dieci giorni non capitava dal periodo più nero di questo blog. Ce ne scusiamo con i lettori: la redazione è alle prese con lavori, esami, preparazione nuovo numero, vacanze, afa e ovviamente pigrizia. Cerco di rimediare con una pagina di segnalazioni ben farcita e con la promessa di nuovi post rapidi a venire.

* Un' ottima riflessione di Leonardo sui fatti di Genova alla luce delle nuove, sospette, rivelazioni.

* "L'abominevole bellezza" dei suicidi dell'undici settembre, su Nazione Indiana.

* Da (il) Crise, un bel pezzo di Massimo Sannelli su Tondelli.

* Un' interessante riflessione di Gabriele su omosessualtà e maschilismo.

* Mak colpisce ancora.

* Date un'occhiata agli aggiornamenti del sito Banche Armate, e controllate che la vostra banca non sia tra le vecchie o le nuove finanziatrici di armi.

* Carmilla sui recenti casi di censura del web italiano.

* Con due colpevoli giorni di ritardo ci tengo a ricordare anche qui che un anno fa diventavamo per la quarta volta Campioni del Mondo (o, come Daria mi insegna, Weltmeister!). Per chi quella sera era con me in Piazza Maggiore.

Paolo

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01 luglio 2007

Il trampoliere

[Marco Madonia mi aveva segnalato tempo fa Günter Eich, scrittore tedesco del Gruppo '47, quasi per nulla tradotto in italiano. Questo è un racconto del 1954, spero di non averlo snaturato troppo.

Daria
]

Ho a che fare con molti uomini, e tra questi ce n’è a malapena uno che sia felice. Invece io lo sono, perché a me è capitato di raggiungere il fine che inseguivo dalla mia prima giovinezza. Faccio il lavoro che desideravo: sono rappresentante dell’azienda “Astrol”, che produce e vende creme per le scarpe.
Questo è il lato pratico della mia attività, ma solo collegato a qualcosa di più alto, che appartiene a ogni vera professione e anche alla mia, mi riempie di una felicità inesauribile. Come posso spiegare questa felicità a chi non la conosce?
L’osservatore superficiale non riesce a vedere i due aspetti del mio lavoro come uno solo. Quando in un posto ho passato in rassegna tutti i negozi che producono crema da scarpe e preso le ordinazioni, me ne torno alla macchina, intorno alla quale di solito si è già raccolta una folla più o meno grande. Bambini, soprattutto. Ad attirarli non sono le pubblicità sgargianti appese agli sportelli dell’auto - macchine così se ne vedono molte, anche se bisogna ammettere che i colori della Astrol (verde veleno e un rosso porpora che stridono l’uno accanto all’altro) hanno un qualche spaventoso potere d’attrazione, come l’occhio della vipera per la rana. No, è piuttosto l’insolita struttura della mia macchina che attrae l’attenzione e lascia sempre a bocca aperta anche chi ha già visto di tutto e non prova più curiosità. Ai lati infatti sono appese delle scale a pioli, una a destra e una a sinistra, inclinate verso il centro, che si assottigliano verso l’alto e si innalzano al di sopra del tetto dell’auto. Tra le due scale gira in cerchio una scarpa da uomo di grandezza superiore al naturale. Stringhe rosse grosse come lacci di tende pendono giù dalle parti. Con queste, e i bambini fanno preso ad arrivarci, si aziona l’ingranaggio di un grammofono piazzato all’interno dell’auto, che suona in successione una musica sostenuta, vivace o lenta, seguita da qualche slogan pubblicitario. La sua particolare efficacia consiste nel fatto che la pubblicità viene messa in moto da un’azione che i bambini considerano proibita, e proprio mentre ci pensano sono spinti a farla. Così, quando mi avvicino all’auto, c’é sempre qualcuno che ci casca, facendomi inconsapevolmente da aiutante. Gli altri mi guardano pieni di aspettativa. Io lancio loro un’occhiata, apro lo sportello del portabagagli, salgo in macchina e mi chiudo la portiera alle spalle. Nel buio mi travesto.
Devo ammettere che ancora oggi, quando mi trovo da solo all’interno dell’auto, a volte ho il batticuore, un’emozione prossima alle lacrime, prima dell’attimo in cui riapro la portiera. Forse sente qualcosa di simile anche l’attore, quando nel camerino si prepara ad entrare in scena. Allo stesso tempo, però, quello che faccio io è qualcosa di molto più intimo e profondo dell’entrare in teatro: sono sul punto di arrivare a me stesso.
Quando ho indossato i pantaloni rossi, lunghi il doppio delle mie gambe e perciò ben rimboccati in alto, e il corpetto verde veleno con sulla schiena e sul petto la scritta “Astrol”, prendo in mano il cilindro rosso e me lo metto, riapro lo sportello e per prima cosa esco fuori con la testa. Così vestito mi avvicino ad una delle scale e salgo su per i pioli, mentre contemporaneamente sciolgo a destra e a sinistra i trampoli fissati alle scale. Arrivato all’ultimo gradino, lascio scivolare giù lungo i trampoli i pantaloni, i modo che si srotolino per tutta la loro lunghezza, scendo di nuovo giù finché le mie mani riescono ad afferrare il legno sotto la stoffa e i piedi trovano un punto d’appoggio sulle predelle dei trampoli. Do un lieve colpo alla macchina e inizio la mia passeggiata per le strade, alto sopra le teste della gente in delirio.
Mi ricordo ancora benissimo di quando per la prima volta da bambino scorsi un trampoliere così. Con le code svolazzanti del frack andava per la strada. Dai campi arrivava un odore di crauti, quando lo sento mi fa sempre pensare a lui. Mia madre mi teneva in braccio e io guardavo in alto verso di lui, in silenzio, contrariamente alla mia abitudine, perché mi sembrava la cosa più meravigliosa che avessi visto fino a quel momento. L’uomo sui trampoli si piegò verso di me, sul serio, riusciva a farlo, e quando il suo viso barbuto mi fu vicinissimo, mi mise in bocca una caramella. E con quella caramella mi venne voglia di diventare come lui.
Quando dopo anni lo rividi, non aveva perso niente della sua magia. Per me era sempre più evidente che al mondo non ci fosse niente di più grandioso che essere un trampoliere.
Gli uomini non riescono a diventare felici, perché cambiano o abbandonano i loro obiettivi, spinti a cedere da ogni difficoltà. Anche per me ci sono stati ostacoli, e ho avuto bisogno di molta pazienza per superarli e reagire senza farmi prendere dal dubbio. Già l’esercizio di stare in piedi sui trampoli, intrapreso fin dalla prima giovinezza, avrebbe potuto condurmi alla più desolante rassegnazione. Infatti sapersi muovere alla meno peggio non bastava, dovevo arrivare all’eccellenza, e questo modo di camminare non doveva più avere per me alcun segreto. Tutto dipende dal saper dare un’impressione di autonomia, e raggiungere poi anche una certa consapevole grazia nei movimenti, che sembri senza forza di gravità. Da quando ho compiuto sei anni non è passato un solo giorno nel quale non mi sia allenato per ore. Ancora oggi, indipendentemente dalle mie esibizioni, passo sui trampoli dalle tre alle quattro ore, in estate e in inverno, indifferente alla pioggia, alla neve, all’asfalto scivoloso o infangato, nel traffico delle grandi città, per prati e per boschi, attraverso fiumi, ghiacciai e rocce. Fin da piccolo mi sono abituato anche a dormirci, appoggiato al muro. Vincevo gare contro velocisti e cavalli al galoppo. Con lunghe camminate mettevo alla prova la mia resistenza, per le scale e sugli autocarri la mia agilità. Riuscii a perfezionare i modelli tradizionali con alcune innovazioni, e a questo riguardo ritengo che gli strumenti che utilizzo adesso siano insuperabili. Io stesso li ho perfezionati e ne uso solo tre paia, uno con segnali musicali e luminosi per il traffico delle grandi città, un paio di legno per i percorsi lunghi e un paio in metallo leggero per le dimostrazioni.
E poi cosa significano le difficoltà che si incontrano sulla via della perfezione in confronto a tutte quelle che mi causava un mondo circostante che non riusciva a capire? Preferisco tacere degli scherzi e delle umiliazioni che ho dovuto sopportare fino a quando non ho raggiunto la prima tappa sul mio percorso, il posto di apprendista alla Astrol.
Ma proprio qui, quando credevo di essere vicino al mio scopo, sorse un nuovo ostacolo che quasi mi costrinse a rinunciare ai miei piani. Scoprii presto che la pubblicità dell’azienda sarebbe stata abolita, e inizialmente così pensai di volgere la cosa a mio vantaggio. Evidentemente mancavano giovani leve. Ma quando un giorno osai propormi per questa sezione pubblicitaria, scoprii con mio spavento che non c’era alcuna intenzione di reintrodurre questo genere di pubblicità. Era considerata superata.
Ero come narcotizzato, e fantasticai per settimane su come trovare una via d’uscita. Dovevo davvero dichiararmi sconfitto e ammettere che tutti i miei piani erano sbagliati, che erano del tutto privi di giudizio? E d’altra parte come potevo io, l’ultimo assunto, convincere i direttori che stavano gettando via la cosa di maggior valore, che sciupavano con leggerezza tutto quello il mondo associava al loro nome? Mi veniva un’idea dopo l’altra e le scartavo. Lessi la biografia di Demostene, forse un modo di parlare rapido e focoso poteva aiutarmi. Ma i sassi sotto la lingua mi dimostravano che io non ero un retore. Dovevo nonostante questo scrivere una lettera al responsabile e con argomenti inconfutabili cercare di farlo ragionare? No, le frasi che cercavo di scrivere erano spente e incapaci di suscitare entusiasmo. Così capii: se c’era qualcosa in grado di convincere, erano solo i miei trampoli.
Nella fabbrica rubai due cartelli smaltati con la scritta “Astrol”, me le fissai con del filo metallico alla schiena e al petto e iniziai ad andarmene ogni sera per le strade, finito l’orario di servizio. La cosa non fu priva di effetto. Dopo tre o quattro giorni venni chiamato in Direzione.
Che indescrivibile momento, quando in un lampo vidi il mio obiettivo a un passo da me! In una specie di ubriacatura attraversi il cortile della fabbrica e salii su per le scintillanti scale che portavano agli uffici. Dimenticai di bussare e rimasi in piedi senza essere annunciato nel silenzio della stanza. Un viso ostile e incipriato di bianco si voltò verso di me. Non appena avrò detto il mio nome, pensai, questa rabbia si trasformerà in uno sguardo di amicizia, ma una voce stridula mi informò diversamente: o la smettevo con questa pagliacciata, così la chiamò, o dalla prossima volta ero licenziato. Non so come riuscii a trovare la maniglia della porta.
Dopo che ebbi attraversato il piano e sceso di nuovo le scale, rimasi fermo sul pianerottolo e guardai il cortile della fabbrica. Le finestre erano aperte, e un tiepido, triste vento soffiava nel piccolo orto sottostante.
Chiusi la finestra, tornai di nuovo su, attraversai il piano ed entrai per la seconda volta senza bussare nella stanza. La ragazza era seduta a scrivere a macchina, e mi affrettai a parlare, prima che potesse lanciarmi un’occhiata. “Continuerò con questa pagliacciata” dissi “continuerò, a costo di essere licenziato. Non smetterò neanche dopo il mio licenziamento.” La ragazza alzò le sopracciglia. “Aspetti un momento” disse, e sparì nella stanza accanto. Rimasi in piedi del tutto tranquillo, ma dentro di me tremavo.
Con la stessa calma, pochi minuti dopo mi trovavo di fronte al responsabile della Astrol. Mi aspettavo irritazione e parole pungenti, ma con mia sorpresa mi trattò con una familiarità quasi paterna. Quando mi ringraziò per le mie camminate sui trampoli a servizio dell’azienda, pensavo di non dover credere alle mie orecchie. “Vorrei che tutti i dipendenti della Astrol fossero animati dallo stesso spirito!” disse. “Però” proseguì, stava dietro alla sua scrivania e si piegò verso di me, per potermi guardare bene dal suo posto “però non ha pensato che forse ci fa più danno che altro, quando lei, mi scusi eh, con quei pantaloni rattoppati, la scritta sul petto e il filo spinato alle anche, rappresenta il lavoro della Astrol?”
Mi accorsi che stavo arrossendo. Aveva ragione, naturalmente. “Li cambierò” dissi. “Cambiarli?” ribatté lui “Ma l’azienda non ha soldi!” “Non ho detto che li deve cambiare l’azienda” dissi io stupito “ma non voglio essere un disonore. Non mi rimetterò sui trampoli fino a che Lei non sarà soddisfatto dei miei pantaloni. Lo prometto. Ho già risparmiato per un completo. Mi comprerò dei pantaloni rossi e una giacca verde. Lei ha pienamente ragione.” Mi fissò e mormorò: “Bene, bene” poi mi tese la mano sulla scrivania, io la strinsi “Sono d’accordo” disse. “La ringrazio” risposi. Annuì, ed io feci per andarmene. “Ancora una cosa” disse. “Ma perché lo fa, esattamente?” io non capii la domanda. Che voleva dire? Si aspettava che durante il giorno lavorassi per l’azienda e di sera me ne andassi per me in giro sui trampoli?
A dire il vero ci sono ancora oggi persone per le quali la visita di un rappresentante e una passeggiata sui trampoli sono due cose da tenere separate. Ma che bassezza è il lavoro senza questo innalzamento ideale sui trampoli, sarei costretto a muovermi per così dire in uno spazio privo di aria, se non salissi sui trampoli che mi staccano da terra. Uno non può stare senza l’altro – solo così il mondo resta in armonia.
Mi si perdoni se sono felice. Io non vorrei la mia felicità solo per me – vorrei comunicarla anche agli altri, e talvolta credo che mi riesca. Al tramonto vado per le strade di una piccola città. Nel gioco leggero della braccia, nei passi privi di fatica mi sento vicino alla falce della luna e alle nuvole notturne che avanzano. Sotto i trampoli sento la terra meravigliosa, i cerchi che girano nello spazio del mondo, sulla schiena e sul petto risplendono le lettere “Astrol”. Instancabili mi seguono piccoli passi, sento il respiro continuo e le parole spezzate dell’estasi, suonano come un canto. Là dove brilla la prima lanterna mi piego in avanti e guardo il viso caldo, arrossato di un bambino. Mi guarda, e nei suoi occhi vedo risplendere la fiamma dell’entusiasmo, che non si spegnerà mai più. Ed è così, qualche volta.

Eich

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