L'amicizia
È un pomeriggio strano, di quelli in cui mi prende una malinconia un po' indecifrabile, quasi ridicola o, se vogliamo, adolescenziale. E per questo me ne stavo ad ascoltare Alberto Fortis, e in particolare una canzone, L'amicizia, che in questo periodo di dinamiche particolari, tra il confuso e nevrotico accorpamento di gruppo che si fà sempre più insistente – e che forse mostra il cedere di un meccanismo che negli anni universitari ha funzionato e che ora va deteriorandosi – e altre manifestazioni di generalizzato disagio che molto spesso o non si colgono o si rifiutano, mi sembra riesca ad esprimere chiaramente alcuni dei gangli di questa situazione, così come molte altre canzoni di Fortis del suo primo album omonimo risalente al 1979, che ci hanno accompagnato nel corso dell'università, rispecchiavano quella nostra passata condizione forse più serena, o meglio meno complicata, dell'attuale. Ma comunque, tanto per non tediarvi, eccovi il testo.
Vittorio
«Come farai a parlare
di bontà del tuo lavoro
come farai a parlare di te
che tremi e sudi
come farai a credere negli altri
che desideri ammazzare
se non ti dicono "bravo"
come farai a rubare il sole
che era tuo
e come farai
a non essere doppio nella tua persona
di uomo che vive
e di amante
come farai
a regalare tutto
se con l'età ti uccideranno l'amicizia
che dell'anno che va
è la stagione più bella
ha la luce di una stella
che non muore
e vorresti fosse lei l'amore
ma il tempo che passa
porta guerra e falsità
e l'amicizia non potrà
camminare sotto braccio
coi discorsi fastidiosi
che due sposi devono dire
per partire lontano
stringendosi la mano nella mano
e dentro una bugia
come farai
a unire questi amori
che non troverai mai insieme
come farai»
L'amicizia, Alberto Fortis
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6 Commenti:
P.S.: Un saluto e auguri a tutte le compagne tabardiane.
mi permetto di dire anche la mia:
sante parole!
Nella dedica della mia modestissima tesi riprendevo una citazione con cui chiudevamo l'editoriale del secondo numero:
A Tabard,
da tre anni sempre pronto a
sostituire una forma con l’altra
Mai come in questo momento credo che Tabard (come discorso) debba funzionare come etica riformulante i nostri a volte stanchi rapporti d'amicizia (il plurale non è mai un caso).
E' che il tempo ci addossa questa sicurezza di non esserci. Però la memoria collettiva ci accudiva a mo' di spazio preservante il checchismo.
E' sempre bene fermarsi, dirsi e recuperarsi. E qui dal Messico innumerevoli nodi si snodano. Il nuovo rimanda costantemente all'aldilà (ah) bolognese. E' una forza violenta (sento il violento, l'aggressivo che viste (oddio non so se si dice cosi in italiano) in me, non sapevo perché). E' forza ricostruttiva, dialogante.
En fin, lo si è sempre detto, il libretto di Anceschi avrebbe potuto avere un altro titolo: Che cosa è l'etica?
Siamo in tanti a non esserci:
Amici, coraggio!
PS: giuro che non sono sbronzo adesso. Giuro suddio.
Ah: Vittorio, bravo!
Eugenio, non credere che basti così poco per non essere ammazzato...
Scherzi a parte (ma anche no) penso che tu abbia messo in evidenza una necessità, quella di verbalizzare costantemente e ridiscutere certi processi, necessità a cui in fondo anche questo post con i suoi commenti cerca di rispondere. Il problema della memoria collettiva, poi, è che ad oggi pare in fondo averci trasformato come in maschere, interpretazioni caricaturali di noi stessi, personaggi in cui è troppo comodo credere ancora, ma nei quali si resta bloccati. Per questo mi sento personalmente alla ricerca di una forma diversa, e non è casuale il mio trasferimento a Bologna. Cosa simile anche per te, credo, che in Messico te la stai trovando un'altra forma(?).
Ma quella forza violenta di cui parli è ambivalente, resistenza del passato dentro di te (e condizionamento inevitabile) ma anche il riscatto violento di una diversità che qui forse restava imbrigliata (il buonissimo Eugenio...). Non saprei, discutiamone. Spero di non aver delirato troppo.
P.S.: Le trovo indicative queste finali richieste di scuse per quando ci si sbilancia (Marco, vale anche per te e il tuo commento al post precedente).
Le maschere di cui parla Vittorio, io le ho intraviste un'annata fa, potentissime. Per un bambinello che non sa il portatore sono ancora più affascinanti, non vuole neanche scoprirlo forse, non ancora almeno. Quel carnevale mi ha affascinato e intristito (come ogni carnevale che si rispetti), vorrei riassistere alla sfilata, magari accodarmi. Ma nella mia valutazione mancano il tempo, la distanza, la fatica. Capisco il peso, il logorio, l'obbligo (e mi spiego il ruolo di capocomico del fegato). Ma in fondo, ognuno è il suo passato, è la somma dei suoi eventi, no?
Io temo di non farcela a scappare ancora da Bologna (definitivamente), non faccio parte di una memoria collettiva. Ma bevo pastis, per riempire. E non me ne scuso.
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