
Inizio a leggere un romanzo,
La sombra del caudillo di Martín Luis Guzmán (1929). Leggo nel dettaglio, analizzo, mi diverto tantissimo. Romanzo della rivoluzione messicana, categoria molto ampia di cui (spero) nei prossimi post tornerò a parlare. Tutta la prima parte mi pare magistrale, con un narratore iper-onnisciente, onnipresente, ironico, che tratteggia i «nostri eroi» postrevoluzionari seguendoli nel loro giro donnaiolo, borrachero, demagogico, risultato della istituzionalizzazione della Rivoluzione (P.R.I. si chiamerà il partito che governerà il Messico per decenni di ipercorruzione antidemocratica - che continua, in maniera differente, con due partiti in più - Partido revolucionario institucional...). Tutto il machismo, la bassezza, o lo splendore fisico-comportamentale dei personaggi mi
sembra una grossissima caricatura. Il climax del comico arriva quando Aguirre - importante esponente della politica del tempo, personaggio principale del romanzo, generale dell’esercito e fidato collaboratore del caudillo, bajo su sombra - Aguirre, che appare nella prima pagina col suo
Cadillac, doppio speculare delle sue oscillazioni psicologiche, in una scena esilarante si fa incontro col suo macchinone a una donna che intende sedurre, «e sentì, quanto più si avvicinava, un trasporto vitale, un che di impulsivo, trascinante, che dal suo corpo si trasferì al
Cadillac e che l’auto manifestò prontamente, con brusche scosse, nell’azione nervosa dei suoi freni. Perché l’autista, che conosceva il suo padrone, arrivò a tutta velocità al luogo preciso, in modo che l’auto si fermasse lì simulando la dinamica - virile, spettacolare - del cavallo che il fantino tratteggia nel culmine della corsa» (scusate la traduzione, senza vocabolario). Scrivo sul mio quadernetto: «¡increíble!». E la paroletta, risignificata, poteva funzionare.
Continuo il romanzo e mi accorgo che tutta l’ironia che avevo letto in quella prima parte, scompare. Mi chiedo, in che maniera e perché. Si continua sullo stesso tono, mi dico, si sta normalizzando quella carica satirica. Leggo meglio, il romanzo inizia a non avere più neanche un rimasuglio di ironia. Lo finisco e la sua struttura è quella di una tragedia. Inizio a intuire, torno alla prima parte. Ovvio che non c’era neanche un briciolo di ironia dove io avevo voluto vederla. Racconto l’accaduto in classe e la professoressa mi dice: «perché tu l’hai letto in maniera postmoderna!». Increíble. Il minimo dettaglio può essere spiegato culturalmente. Quello citato (mi dice un mio amico): devi pensare che da poco si iniziavano ad utilizzare le auto, il modo di percepire la strada e il movimento è ancora quello di chi sta cavalcando. In più i rivoluzionari semi-analfabeti saliti al potere ecc.Per due mesi ho sospeso il giudizio e ho studiato. Ma non per l’accaduto qui raccontato. Per una questione di metodo che difficoltosamente sto cercando di formulare. Le domande erano: fino a che punto posso pretendere di allargare le relazioni? E quanto ingenuamente posso farlo, relazionando un romanzo come La sombra con tutto ciò che si è scritto prima e negli stessi anni in Europa? Quante relazioni, quanti riferimenti mi mancano per non cadere in un classico esempio di presunzione interpretativa (“occidentalista”? mi si passi il “banalismo”).
Questo si estende a tutto, alla percezione della città, allo sguardo straniato di cui parlava il Severi, a molto altro ancora.
Adesso devo studiare un romanzo per la lezione di mezzogiorno, quindi mi fermo qui. Presto espliciterò la “questione di metodo”, esistenziale, etica, innanzitutto. E vi parlerò, avendo tempo, di tanti romanzi di cui in Italia non mi sembra esista traduzione.
Eugenio SantangeloEtichette: A Tasca
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