Io e zio Pluto - di Mimmo Cangiano e Eugenio Santangelo
Perché, vedete, il luogo aiuta, il luogo è lo stesso, questo stesso bar che pare non aver cambiato tavolini, in questa città, Terni: uno spazio definito. Però il tempo ha rimaneggiato il ricordo di una storia che per giunta è un solo punto condensato in un attimo di contatto, d’impatto: sbam, tutto in un punto, ma non si è chiuso.
Fu, oltretutto, una collisione prodottasi in un picco d’esagitazione alcolica, e quindi d’incoscienza, o di difficoltà di percezione del di fuori, del mondo. Un picco certo superabilissimo e tuttavia interrotto da questo cozzo di cui qui sopra (e poi sotto). Insomma ero sbronzo, ma avrei anche potuto esserlo di più. Avrei potuto se in quell’istante non fosse avvenuto a choccare me e il mondo, se non fosse stato agito quel ganglio brutale di cui, qui, Ennio Smerletti, riordinando, raccontando, si vorrà poi vendicare.
Riguarda tutto un uomo, zio Pluto, che io aspetto nello stesso luogo, due anni dopo.
Quindi l’impatto: tutto troppo veloce, improvviso, solo la vaga sensazione di non essermelo meritato: subito misi in dubbio anche quella. Io stavo guardando col miglior sorriso che potevo la barista d’occhiali dolci e occhi svelti, ordinavo un’altra birra, quelli là mi mozzarono il fiato. Ma qui non voglio discutere di come quelli là m’afferrarono alle spalle, mi tirarono il collo, me lo strattonarono, lo strinsero, mentre altri spugnettavano e s’infoghivano su di me, sbronzo e smilzo. Non racconterò che fu, come m’accorsi e m’accorgo, una sorta di spropositata difesa, o vendetta, che il ciccione mi scagliò addosso dopo essersi buscato una birra in faccia, dopo che io senza essere in grado di dedurre possibili conseguenze, m’inscenai nell’atto puerile, ubriacamente puerile, di ribaltare un intero bicchiere sul pelato ciccione. Importa poco, non importa che guardata adesso vedo una comicità irresistibile nel me sentendomi perfettamente coerente in quell’atto, e incosciente nel rientrare come nulla fosse nel bar per ririempire il bicchiere.
Quel che importa è zio Pluto, che io aspetto, due anni dopo, in questo stesso bar, progettata la vendetta (freddissima), e per nessun motivo in particolare.
Ecco: zio Pluto aveva settantanni quasi, diciamo, una memoria molto dedita al vino che vagheggiava i suoi racconti, discorsi e trascorsi, ed una faccia butterata di rughe che ben si adattava alla voce con cui ci parlava. Non ero mica solo, con zio Pluto. C’era tutta una banda di miei amici a bere in quel bar. Amici che però si trovarono impreparati al momento del contatto, dell’impatto, del punto nero del pestaggio. Diciamo meglio, non si trovarono affatto in quel momento, i miei amici, manco se ne resero conto. Ma neppure questo importa. Importa solo la vendetta. Cioè la completezza. Chiudere il discorso, come si suol dire.
E di discorsi e racconti se n’erano fatti molti con zio Pluto, e queste narrazioni avevano, credo, giustificato il nomignolo disneyano. Il fatto è che non ricordo. Quelle conversazioni se le sono risucchiate la birra rovesciata, gli occhi rossi di lui e due anni di mezzo. Però era una memoria, quel zio Pluto, e noi un uditorio che sorrideva molto e rideva molto e cominciava a bere (più in là a cantare per il troppo bere). Ed era finita a pacche sulle spalle, brindisi e purtroppo niente foto. Un bel gruppo: lo zio nel centro. Poi tutto filò in un piano inclinato verso altri interessi e impulsi, si risaliva il picco dell’ubriachezza. E lo si lasciò dentro con gomito sul bancone, zio Pluto, quasi mezzo dormito, tenendo d’occhio il bicchiere, mentre fuori avvenivano altri racconti, altre questioni, altri canti in cui lui non rientrò e che lo avevano offuscato e messo in parte.
Allora viene l’azione (è tutto un poco smemorato, ma si sta riformando, adesso, a poco a poco): ciccioni pelati e scagnozzi, dispersione dei gruppi, mio ingresso nel bar per ricarica bicchiere e scazzottaggio (come sopra): rovesci della sorte e delle birre. Ma l’elemento che chiuse il pestaggio non aggiunge altro dolore alla scena. Cioè pugno più o pugno meno, mi stavano pestando, e non cambia poi molto che proprio lui, in maniera così poco plutesca, così poco conveniente a uno zio, con quegli occhi rozzi che risalirono dal gomito al bancone, con quel guizzo, con quel braccio d’operaio d’acciaieria (ora ricordo), proprio lui, zio Pluto, dimenticando tutto, non importa che abbia sommato un pugno in più. Non importa, in termini di dolore aggiunto. Ma poi chi è zio Pluto? Non ricordavo nemmeno che faccia avesse. Eppure io questa cosa qui, di questo bar e di quello che vi è successo dentro una notte di due anni fa, la pensavo con una certa insistenza. È questione di vendetta. Cioè di completezza. Chiudere il discorso, come si suol dire.
È a quel punto che il barista mi ha detto: “Tu non sei di Terni”.
Infatti no. Io con questa città non ho niente a che spartire. È colpa della vendetta se sto qua, e allora glielo dico: “È per l’incompletezza che sto qua”.
Ma cosa ne vuol sapere un barista di Terni, mentre zio Pluto entra nel bar, di sistemi che vanno chiusi.
È ancora più vecchio, ha un naso piccolo e schiacciato (topolinesco, ma tant’è, i nomignoli rimangono), le rughe al loro posto e rilassate, gli occhi di un azzurro chiaro, con un velo sopra, già vitrei, già sepolti, ostinati a vivere ancora mentre mi chiede una sigaretta.
“Niente per te”.
Mi incammino, sento il suono delle mie scarpe, non sono più sicuro che fosse lui. È l’ora di chiusura degli uffici, la stazione è a due passi, già la vedo.
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