-Il Sogno della città giardino (V. E. Howard,
L'idea della città giardino, Bologna 1952)
Questo modello di pianificazione urbana, volto a recuperare una dimensione più umana dopo le aberrazioni della congestionatissima città industriale, organizzata in meccanica funzione del profitto, consiste molto schematicamente nell'articolazione dell'incipiente spazio megalopolitano in unità compatte, separate le une dalle altre da fasce verdi, provviste di attrezzature standardizzate, di una densità abitativa determinata e di tutta una serie di accorgimenti che renderebbero non soltanto più vivibile la quotidianità urbana, ma che inoltre dovrebbero veicolare una partecipazione attiva dei cittadini alla vita politica urbana attraverso luoghi di riunione - detti centri sociali - per una gestione locale dei problemi locali. Gli eredi di questa idea sono i suburbi e, in ultima istanza, le
gated communities e i
turfs, essendo questi ultimi quartieri residenziali recintati, chiusi all'accesso pubblico e molto spesso sorvegliati a vista da professionisti del mestiere.
-Il fallimento del sogno suburbanoIl fallimento del sogno suburbano, rimanda all'impossibilità di inserire delle cellule sane e felici in un corpo urbano in stato ormai avanzato di metastasi, cioè rimanda all'impossibilità di trincerarsi dietro invisibili muri di egoismo e di ritagliarsi un idilliaco giardino, quando si è circondati da una sterminata discarica globale. Questo sogno svanito suscita interrogativi etici e sociali molto più profondi al risveglio.
Infatti lo sviluppo del suburbio e delle zone residenziali per redditi medio-alti, come è massimamente evidente nella realtà americana, non ha fatto che frantumare il tessuto sociale e isolare ancor più gli individui, trasformandosi in una scelta strategica per le politiche del controllo da quell'iniziale ispirazione caritatevole o filantropica concessione: per gli abitanti di questi "villaggi" la realtà diventa sempre più quella documentata dai media.
Estratti come sono dal tessuto storico della città, la vita appartata di questi cittadini che avrebbe dovuto rilanciare una passione civica di ellenica memoria, non è altro che una fuga dal caos e dalle responsabilità.
Inoltre un tale sviluppo non fa altro che fiondare abitazioni a notevole distanza dai centri cittadini in una strenua ricerca di luoghi da colonizzare prima e da servire poi, con un sempre più complesso sistema di strade a scorrimento veloce e riservate al traffico degli autoveicoli, in gran parte privati.
-Un vecchio luogo d'incontro
Delle strade siffatte dunque, separano piuttosto che unire, scavano solchi e fossati spesso invalicabili nel territorio urbano. Delle strade siffatte inoculano negli abitacoli delle autovetture i cittadini "privilegiati", precedentemente barricati nelle unità uni-familiari, uni-lateralmente controllate da una capillare diffusione mediatica, per eleggere il sobborgo a luogo principe del nuovo assolutismo e a solvente corrosivo della città e del suo intricato tessuto di rapporti sociali.
Il tempo si sostituisce allo spazio, al luogo si sostituisce la sua negazione: le direttrici principali di comunicazione, astratte come flussi informatici, sì uniscono luoghi un tempo distanti e ora continui, ma costruiscono mura insuperabili, nel paesaggio e fra i gruppi sociali: se per le classi medio-alte l'isolamento è una scelta, negli slums, nelle banlieux, nelle bidonvilles l'emarginazione e l'isolamento sono imposti tangibilmente da una configurazione urbana discriminante.
-Il pedone escluso
Nel '74 Ballard testimoniava la situazione di "isolamento" assoluto del "pedone" nel romanzo L'isola di cemento, in cui un uomo, vittima di un incidente, rimane prigioniero appunto nell' isola spartitraffico di una high-way, mentre gli automobilisti sfrecciano incuranti e velocissimi, ridotti ad insensibili involucri di metallo. La città contemporanea, sottoposta alle esigenze della mobilità meccanica, è un luogo ostile al pedone. Il tanto decantato potenziamento dei trasporti, che esige enormi investimenti e che produce altrettanto enormi profitti non è che pura speculazione su una situazione di intollerabile irrazionalità nella configuarazone urbana ed è mero palliativo a problemi strutturali.
La disordinata ed insensata crescita urbana più che produrre policentrismo annienta la città come unità culturale e la declassa a invivibile "conurbazione".
-Le città invi(vi/si)bili
Calvino in una delle sue conferenze americane diceva che "Le città invisibili sono un sogno che nasce dal cuore delle città invivibili". Questo suggerisce una suggestiva omonimia: Mumford (La Città nella storia, Bompiani, Milano 1994) chiama "città invisibile" quella griglia funzionale che, nell'epoca della smaterializzazione o della eterizzazione, va a rimpiazzare compiti una volta assolti dalla città (come per esempio il controllo della collettività e del territorio o lo smistamento dei beni).
Saskia Sassen più di trent'anni dopo studierà le conseguenze materiali e sociali della smaterializzazione dell'economia, nella misura in cui anch'essa, per quanto tendente ad un'assoluta autonomia dalla reltà fisica, necessita di un fabbisogno umano a vari livelli della gerarchia sociale. Perniola d'altra parte completa il quadro in un breve saggio apparso su Eterotopia (M.Foucault, Millepiani, Mimesis, 2005) e restituisce ad un tale attore urbano un'adeguato quanto suggestivo proscenio: il paesaggio concreto dell'urbe sarebbe il "resto materiale che la smaterializzazione informatica non riesce a dissolvere".
-Studiare la città
Studiare la città significa studiare la storia materiale e culturale dell'uomo, le cui vestigia sono disseminate sul pianeta in tutta la loro varietà culturale e temporale: le città sono sepolte, le città si scavano come tane sotterranee e si innalzano prepotentemente nella incessante conquista del cielo. Nelle città si condensano i desideri e le paure dell'uomo come già scriveva Calvino il quale aveva profondamente capito la natura "coerente" della città: tutte le città immaginabili, sto parafrasando, hanno una regola interna, un filo conduttore: esse sono paragonabili ad un "discorso".
Le città sono un discorso dell'uomo che si dipana nella storia, un discorso che può essere smembrato negli elementi che ne compongono il codice e analizzato e descritto, ma che, in ultima istanza, non può non rimandare all'uomo stesso, che la città l'ha immaginata, costruita, modificata, l'uomo che ha assediato, espugnato, abitato ed infine distrutto.
Disarticolare la città, rendenderla funzionale alla transitabilità del mezzo meccanico e ostile al pedone, declassarla a conurbazione, ad assemblamento di mattoncini spersonalizzati, costruire mura a difesa di un benessere miserabile ed illusorio, rendere feconde la ripetizione e l'omologazione, equivale a cancellare la storia collettiva e a fondare in sua vece o come suo surrogato la biografia dell'individuo non-più-sociale: sembra di osservare la decomposizione del volto stesso dell'uomo.
-Ad acerba conclusione
L'agonia (l'insostenibilità) dell'omologante megalopoli occidentale è agonia di civiltà, fare della città un "segno" mi sembra fondamentale per la comprensione del suo significato, credo che sia questo un buon modo di porsi in una corretta prospettiva ermeneutica.
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