11 settembre 2006

Pensieri per un discorso sulla città

-Il Sogno della città giardino (V. E. Howard, L'idea della città giardino, Bologna 1952)

Questo modello di pianificazione urbana, volto a recuperare una dimensione più umana dopo le aberrazioni della congestionatissima città industriale, organizzata in meccanica funzione del profitto, consiste molto schematicamente nell'articolazione dell'incipiente spazio megalopolitano in unità compatte, separate le une dalle altre da fasce verdi, provviste di attrezzature standardizzate, di una densità abitativa determinata e di tutta una serie di accorgimenti che renderebbero non soltanto più vivibile la quotidianità urbana, ma che inoltre dovrebbero veicolare una partecipazione attiva dei cittadini alla vita politica urbana attraverso luoghi di riunione - detti centri sociali - per una gestione locale dei problemi locali. Gli eredi di questa idea sono i suburbi e, in ultima istanza, le gated communities e i turfs, essendo questi ultimi quartieri residenziali recintati, chiusi all'accesso pubblico e molto spesso sorvegliati a vista da professionisti del mestiere.

-Il fallimento del sogno suburbano

Il fallimento del sogno suburbano, rimanda all'impossibilità di inserire delle cellule sane e felici in un corpo urbano in stato ormai avanzato di metastasi, cioè rimanda all'impossibilità di trincerarsi dietro invisibili muri di egoismo e di ritagliarsi un idilliaco giardino, quando si è circondati da una sterminata discarica globale. Questo sogno svanito suscita interrogativi etici e sociali molto più profondi al risveglio.
Infatti lo sviluppo del suburbio e delle zone residenziali per redditi medio-alti, come è massimamente evidente nella realtà americana, non ha fatto che frantumare il tessuto sociale e isolare ancor più gli individui, trasformandosi in una scelta strategica per le politiche del controllo da quell'iniziale ispirazione caritatevole o filantropica concessione: per gli abitanti di questi "villaggi" la realtà diventa sempre più quella documentata dai media.
Estratti come sono dal tessuto storico della città, la vita appartata di questi cittadini che avrebbe dovuto rilanciare una passione civica di ellenica memoria, non è altro che una fuga dal caos e dalle responsabilità.
Inoltre un tale sviluppo non fa altro che fiondare abitazioni a notevole distanza dai centri cittadini in una strenua ricerca di luoghi da colonizzare prima e da servire poi, con un sempre più complesso sistema di strade a scorrimento veloce e riservate al traffico degli autoveicoli, in gran parte privati.

-Un vecchio luogo d'incontro

Delle strade siffatte dunque, separano piuttosto che unire, scavano solchi e fossati spesso invalicabili nel territorio urbano. Delle strade siffatte inoculano negli abitacoli delle autovetture i cittadini "privilegiati", precedentemente barricati nelle unità uni-familiari, uni-lateralmente controllate da una capillare diffusione mediatica, per eleggere il sobborgo a luogo principe del nuovo assolutismo e a solvente corrosivo della città e del suo intricato tessuto di rapporti sociali.
Il tempo si sostituisce allo spazio, al luogo si sostituisce la sua negazione: le direttrici principali di comunicazione, astratte come flussi informatici, sì uniscono luoghi un tempo distanti e ora continui, ma costruiscono mura insuperabili, nel paesaggio e fra i gruppi sociali: se per le classi medio-alte l'isolamento è una scelta, negli slums, nelle banlieux, nelle bidonvilles l'emarginazione e l'isolamento sono imposti tangibilmente da una configurazione urbana discriminante.

-Il pedone escluso

Nel '74 Ballard testimoniava la situazione di "isolamento" assoluto del "pedone" nel romanzo L'isola di cemento, in cui un uomo, vittima di un incidente, rimane prigioniero appunto nell' isola spartitraffico di una high-way, mentre gli automobilisti sfrecciano incuranti e velocissimi, ridotti ad insensibili involucri di metallo. La città contemporanea, sottoposta alle esigenze della mobilità meccanica, è un luogo ostile al pedone. Il tanto decantato potenziamento dei trasporti, che esige enormi investimenti e che produce altrettanto enormi profitti non è che pura speculazione su una situazione di intollerabile irrazionalità nella configuarazone urbana ed è mero palliativo a problemi strutturali.
La disordinata ed insensata crescita urbana più che produrre policentrismo annienta la città come unità culturale e la declassa a invivibile "conurbazione".

-Le città invi(vi/si)bili

Calvino in una delle sue conferenze americane diceva che "Le città invisibili sono un sogno che nasce dal cuore delle città invivibili". Questo suggerisce una suggestiva omonimia: Mumford (La Città nella storia, Bompiani, Milano 1994) chiama "città invisibile" quella griglia funzionale che, nell'epoca della smaterializzazione o della eterizzazione, va a rimpiazzare compiti una volta assolti dalla città (come per esempio il controllo della collettività e del territorio o lo smistamento dei beni).
Saskia Sassen più di trent'anni dopo studierà le conseguenze materiali e sociali della smaterializzazione dell'economia, nella misura in cui anch'essa, per quanto tendente ad un'assoluta autonomia dalla reltà fisica, necessita di un fabbisogno umano a vari livelli della gerarchia sociale. Perniola d'altra parte completa il quadro in un breve saggio apparso su Eterotopia (M.Foucault, Millepiani, Mimesis, 2005) e restituisce ad un tale attore urbano un'adeguato quanto suggestivo proscenio: il paesaggio concreto dell'urbe sarebbe il "resto materiale che la smaterializzazione informatica non riesce a dissolvere".

-Studiare la città

Studiare la città significa studiare la storia materiale e culturale dell'uomo, le cui vestigia sono disseminate sul pianeta in tutta la loro varietà culturale e temporale: le città sono sepolte, le città si scavano come tane sotterranee e si innalzano prepotentemente nella incessante conquista del cielo. Nelle città si condensano i desideri e le paure dell'uomo come già scriveva Calvino il quale aveva profondamente capito la natura "coerente" della città: tutte le città immaginabili, sto parafrasando, hanno una regola interna, un filo conduttore: esse sono paragonabili ad un "discorso".
Le città sono un discorso dell'uomo che si dipana nella storia, un discorso che può essere smembrato negli elementi che ne compongono il codice e analizzato e descritto, ma che, in ultima istanza, non può non rimandare all'uomo stesso, che la città l'ha immaginata, costruita, modificata, l'uomo che ha assediato, espugnato, abitato ed infine distrutto.
Disarticolare la città, rendenderla funzionale alla transitabilità del mezzo meccanico e ostile al pedone, declassarla a conurbazione, ad assemblamento di mattoncini spersonalizzati, costruire mura a difesa di un benessere miserabile ed illusorio, rendere feconde la ripetizione e l'omologazione, equivale a cancellare la storia collettiva e a fondare in sua vece o come suo surrogato la biografia dell'individuo non-più-sociale: sembra di osservare la decomposizione del volto stesso dell'uomo.

-Ad acerba conclusione

L'agonia (l'insostenibilità) dell'omologante megalopoli occidentale è agonia di civiltà, fare della città un "segno" mi sembra fondamentale per la comprensione del suo significato, credo che sia questo un buon modo di porsi in una corretta prospettiva ermeneutica.


Ezio

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5 Commenti:

Alle 9/23/2006 11:12:00 AM , Anonymous Anonimo ha detto...

di fronte a questa disamina di Ezio che "fotografa" una situazione urbana e civico-civile dove la dignità umana sembra stata ghettizzata da tempo, mi chiedo come sia possibile arrivare a pensare e costurire un nuovo tipo di comunitas: ovvero, le nostre querele sono destinate a rimanere tali? Quanti piani ci sono sopra le nostre teste, tra la cantina buia dove facciamo le nostre riunioni e le stanze dove si decide l'indirizzo della nostra storia? "La storia siamo noi, attenzione" dice De Gregori. Forse sono solo i nostri amici economisti, giuristi, ingegneri destinati a terminare o riscattare l'"agonia di civiltà"? Quale può essere l'effettivo ausilio (effettivo,concreto, con parole che si legano a fatti) delle scienze umane? La nostra è solo un'opera di sensibilizzazione o anche di potere effettuale sulla cose (almeno cittadine)?
Per esempio: Officina è stata una grande e importante rivista, chi lo nega, ma quanto ha influito effettivamente sul corso delle cose?

Andrea

 
Alle 9/25/2006 06:15:00 PM , Anonymous Anonimo ha detto...

Una cosa che viene fuori dal libro di Amin e Thrift mi sembra possa essere utile alla nostra ricerca, la aggiungerei a queste proposte da Ezio.
I due autori insistono a più riprese su come la città resti sempre un organismo talmente complesso da rendere di fatto impraticabile qualunque forma di controllo assoluto, non perché tentativi di questo tipo non esistano, ma perché nessun tipo di potere è realmente in grado di controllare tutte le relazioni possibili (“ le forme di governabilità possono essere progetti totalizzanti, ma non forme di effettiva totalizzazione...”, p. 155 “un requisito indispensabile della città moderna è che non può essere totalmente condizionata...”, p 134; penso anche alla frase che apre il libro: “Le città sono divenute straordinariamente complicate.”). E’ peraltro solo in questi anfratti e spazi bianchi che secondo A. e T. è possibile creare un’opposizione, un’alternativa. Quello che hai scritto tu Vittorio, sul divario tra la città reale e l’immagine che la città stessa vuole dare di sé, mi sembra per il poco che ho visto finora una buona traccia per leggere anche una città come Francoforte, così obbligata ad essere internazionale e accogliente, per il nodo commerciale che è. Si passeggia per lo Zeil, la zona pedonale dei negozi (la città sarà anche ostile al pedone, ma non al pedone-cliente), poi si va a comprare le biciclette rubate al mercato turco che prolifera indisturbato all’ombra della banca centrale europea (non in senso metaforico, ci sono proprio le venditrici accaldate che si sventolano e si spintonano per mettersi nei quadrati d’ombra proiettati dalla BCE e dal grattacielo di qualche altro colosso giapponese), o un libro in italiano fuori commercio dagli anni cinquanta nella minuscola e zeppa libreria Zambon, incastrata tra una filiale della Deutsche Bank e un megastore di telefonia mobile. Non credo siano cose che hanno un potere critico reale, le penso però come esempi dell’imprevedibile della città, dell’impossibilità di sapere e controllare fino in fondo quello che vi succede. Delle derive autoritarie abbiamo poi già parlato molto nel secondo numero, forse così potremmo indagare un altro aspetto della questione.


daria
(non mi ricordo la password)

 
Alle 9/26/2006 06:11:00 PM , Anonymous Anonimo ha detto...

Quello che dicono A. e T. è senz'altro vero. Tanto che abbiamo ancora la fortuna di essere affascinati, di tanto in tanto, dalla vitalità di quartiere, di un frammento di strada, di un parco o chessoio, non ancora affetto dai mali della standardizzazione capitalista. A patto che ciò non si trasformi in conforto in cui cullarsi, in un "in fin dei conti non si sta così male, pensiamo positivo": se è vero che il panotticismo, come personalmente credo, è il fine del sistema di controllo e amministrazione del tempo e dello spazio odierni, stiamo sicuri che prima o poi questo obiettivo sarà raggiunto, per quanto la città sia oggi complessa lo è sempre meno perchè soggetta a un processo di sgomitolazione e semplificazione formale e culturale.
Un punto interessante mi sembra quanto scrivi dell' "ombra", in cui queste pieghe di resistenza trovano ricovero. E' un'immagine molto suggestiva, i piedi di questi colossi rivolti lontano, che guardano oltre il tempo e lo spazio della città, brulicano ancora di vitalità, ai margini del flusso informatico ristagna la vita. I Situazionisti, parlavano proprio di questi oggetti in ombra, invisibili ai più: tutti troppo presi ogni giorno a percorrere le medesime traiettorie, per "vivere" davvero la città (come recita il famoso slogan del way of life parigino: Boulot,métro,dodo cioè lavoro, metro,dormire). I Situazionisti partono dall'assunto che la città in cui viviamo ci è in larga parte sconosciuta: anche il micro-habitat della quotidianità sarebbe infinitamente approfondibile. Perciò escogitarono la tecnica della deriva urbana: questa consiste nell'uscire dal "flusso" dalle triettorie utilitaristicamente determinate e lasciarsi trasportare dalle sensazioni che ci vengono comunicate dallo spazio in cui viviamo (la psicogeografia è prorio una "scienza" che tiene conto dell'influenza psicologica e comportamentale che l'ambiente ha sul'individuo), senza farci condizionare dalla routine, con il naso verso i cornicioni dei palazzi, evitando scritte, pubblicità, vetrine. Ma la deriva non è solo un'azione passiva e contemplativa, bensì dovrebbe essere attiva partecipazione, sia nella reinvenzione creativa dello spazio e del tempo individuali finalmente riconquistati, sia nello svelamento delle logiche di pianificazione del "malefico urbanista"
,servo del sistema, attraverso il cosiddetto "urbanismo unitario",tattica di riappropriazione dello spazio contro la strategia del profitto. Insomma l'ombra della BCE è un luogo privilegiato, forse molto più importante della stessa BCE nel tessuto sociale di Francoforte ed un luogo che dispensa molti insegnamenti: una trattazioni di questi temi nel prossimo numero a mio aviso sarebbe fortemente auspicabile.

Ezio

 
Alle 9/28/2006 06:55:00 PM , Anonymous Anonimo ha detto...

Esperienza situazionista:

2 giorni fa sono uscito di casa a Firenze per andare a correre. aveva solo una vaghissima idea di dove sarei andato. volevo dirigermi verso Fiesole, verso le amate alture dell'Appennino. ma non sapevo esattamente dove quella strada che ormai stavo percorrendo mi stesse portando. stavo in qualche modo non solo scoprendo le strade dietro casa mia (mi ero sempre rivolto davanti, verso il centro), ma anche creando, stavo creando il mio paesaggio, potevo modificarlo decidendo se andare dritto, a destra o a sinistra (modificarlo per il presente corrente ma anche per il futuro, perché sapevo che molto probabilmente quella scelta avrebbe influenzato le mie future corse). Qui a Firenze, quando vinco la pigrazia, è più facile inventare paesaggi, rispetto a quando invece sto nel mio natio borgo selvaggio. il sapere (soprattutto quello rivoluzionario) passa sempre attraverso la costruzione di un paesaggio teorico; una teoria nuova presuppone sempre un paesaggio nuovo. (ne parla Paolo Bollini nel nuovo numero della rivista-antologia della Bottega dell'Elefante, Materiali 2, sui libri che meravigliano e muovono, di imminente uscita).
per questo gli sguardi stranianti (dei fuorisede a Bologna, dei bolognesi a Firenze, dei senesi a Francoforte, dei potentini a Città del Messico, dei ternani a Parigi) sono sempre potenzialmente rivoluzionari, perché vedono i varchi, gli scarti tra le rappresentazioni della città,gli anelli che non tengono. E questi occhi poi devono associarsi ad una voce, ed esprimere a parole quello che hanno ritenuto.

Andrea

 
Alle 8/05/2011 10:38:00 AM , Anonymous casino live ha detto...

ok

 

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