Militanza
Cari amici tabardiani,
mi interessa mettere sul piatto della discussione il concetto di militanza (culturale, nel nostro caso).
Vorrei sapere come ognuno di voi (noi) intende questo concetto.
Voglio dire, esistono tante militanze culturali (dal Dante del Convivio al Valla della Falsa Donazione di Costantino, dai nostri illuministi a Cattaneo, dal Leopardi del Discorso sopra i costumi degli italiani a Pasolini, Calvino, Sanguineti...).
Quale l'atteggiamento sotteso ad ognuna di queste diverse parzialità? O meglio, intendo quale è, o pensiamo dovrebbe essere, il nostro?
Quale pensiamo che dovrebbe essere il rapporto tra teoria e azione? Deve esserci un primato di una delle due o devono procedere assieme?
A me piacerebbe che ognuno degli articoli pubblicati su Tabard avesse una ricaduta, un precipitato, nel dibattito cittadino sulla cultura. Dico cittadino per stare basso (pensare globale e agire locale) ma mi piacerebbe dire nazionale. Gli articoli di architettura e di urbanistica, ad esempio: non vi sembra che questo patrimonio di idee debba entrare nel sangue della città dove quell'autore è stato educato? E in che modo?
Se è vero, come sembra sia vero, che la maggior beneficiaria del pensiero di Marx sia stata la borghesia, propongo (lo ammetto, un po' provocatoriamente) che il nostro modello di militanza sia Enea Silvio Piccolomini (alias papa Pio II, 1458-1464), umanista che usò la cultura per rifondare l'elegia latina (livello micro), fondare e plasmare città (vd. Pienza) (livello umano) e progettare crociate contro gli infedeli (livello macro). È possibile concepire una cultura che si proponga di dar da mangiare e crescere bene bambini africani (Lorenzo in Kenya), che insieme segua il dibattito sul postmoderno (Bologna), che ragioni su concetti, su figure retoriche, che si scanni su parole ed edizioni critiche per poi venire incontro ai bisogni di una collettività? Voglio dire, non culture diverse, ma la stessa cultura, un'unica grande idea di cultura (che non sia un assoluto ovviamente, ma una predisposizione, un atteggiamento, una volontà)?
Andrea
Etichette: Bâtard
7 Commenti:
penso che ad una domanda di questo tipo
non possano rispondere le parole,
ma le pratiche.
ad esse si interesseranno le parole del futuro: saranno queste a decidere se la costante del vostro agire (e del mio) sia "una predisposizione comune" (che termine pericoloso per una rivista che si professa relativista) o una frammentarietà.
dopodiché c'è il discorso pratico: il vostro mi pare un intento d'azione a più livelli e non posso che encomiarlo.
ma
1. il legame tra i piani non è affatto scontato né essi agiranno necessariamente in coerenza l'un con l'altro.
2. saprà il vostro "cittadino" recepire questa complessità?
vorrei capirci meglio, magari postate altro materiale..
comunque benvenuti
-Militanza-
Sostengo che: la militanza sia una presa di coscienza e di difesa delle propire idee, sul piano del pensiero, ed una mediazione intransigente sul piano delle azioni.
Mi spiego : prendere coscienza e difesa delle proprie ideologie non credo sia un concetto di difficile comprensione. Mediare in modo intransigente invece, benchè possa sembrare un paradosso, significa essere inclini ad una “via comunicativa costruttiva” basata sul dialogo ed il confronto, al fine stesso di mediare, trovare un accordo comune che possa essere fondamento per la creazione di nuove soluzioni. In modo intransigente però: in quanto il processo di mediazione non deve essere privato del suo senso, non deve cioè trasformarsi in compromissione o transazione, altrimenti di conseguenza, verrebbe meno la militanza.
Voglio dire.. ..possiamo mediare al fine di costruire un piano comune sul quale agire, ma non possiamo transigere (e qui a mio avviso entra in gioco la militanza) compromessi con chi di natura è dedito, per esempio, alla speculazione, al capitalismo sfrenato, allo sviluppo insostenibile, al consumo a-critico.
Questo secondo me il concetto di militanza, che io ritengo, essendo poco legato agli sviluppi della cultura che stanno al di fuori della musica, più legato alla politica-sociale in senso stretto.
Il rapporto tra teoria ed azione deve quindi, a mio avviso, essere teso verso una duplice accortezza:
1) la predisposizione al confronto, e all’autocorrezione (rivedere le proprie idee è sinonimo di ricerca, di scambio e ponderatezza)
2) la coerenza con la propria linea di pensiero
La domanda quindi che mi pongo è: “Si può essere militanti non intransigenti?”
Secondo me no, con dispiacere, sono concetti che stanno, se non agli antipodi, almeno in forte contrapposizione, e riuscire a far fronte a questo quesito significherebbe prendere parte a tutte quelle strategie volgarmente dette catto-comuniste. Il che è totalmente legittimo, ma non rientra nella “mia” linea di pensiero.
Al fine di avere confronti pongo questa domanda, ansioso di ricevere risposte e correzioni, con lo scopo di migliorare ed elargire la mia visione delle cose e la mia capacità d’analisi.
d'accordo con seba, ma.
non mi sembra
affatto semplice definire il confine tra
le istanze su cui è possibile
transigere e quelle invece intoccabili.
(perdonatemi ora questa ridicola ed ironica
banalizzazione):
credo che i D.S. si sentano intransigenti
quanto quelli di Rif. Com.. Ora:
a vostro avviso queste due
intransigenze "affini" sapranno vivere la
"via comunicativa costruttiva" indicata da
Seba?
(secondo me Doh.)
in realtà,
pur trovando la militanza relativista
un po' riduttiva nella sua "pluri-interpretabilità" (perdonatemi il
neologismo) non so effettivamente pensare
una proposta più convincente.
inoltre mi rendo conto che quello di Tabard
è un modo di pensare e di
agire intimamente "mio",
dunque non lo rinnego.
ma restano dei pesanti nodi
che non so sciogliere:
se è vero, ad esempio, che i catto-comunisti
tradiscono clamorosamente e contepmoraneamente
sia il verbo della Chiesa che le istanze
marxiste, è pure vero che senza questi
"tradimenti", senza queste contraddizioni
interne il reale si ridurrebbe ad un eterno
conflitto tra forze tendenzialmente statiche
nella loro intransigenza, seppur consapevoli
della complessità del reale.
tornando all'impietoso paragone:
anche pensando che i nostri cari DS e i
nostri cari Rif.Com. trovino una mediazione,
come rileva sempre seba sarà assolutamente
impossibile trovare una strada comune
con chi fa speculazione, capitalismo sfrenato, consumo a-critico. (ma forse sto parlando di
nuovo dei DS!).
non sto affatto sostenendo che la risposta
a queste considerazioni sia appiattire
le proprie posizioni su una monca mezza via,
tutt'altro!
semplicemente non so formulare un'altra valida
alternativa.
io, di mio, farei un'autocritica
sottolineando l'intima contraddizione
delle mie posizioni, evidenziando che però
si tratta della miglior risposta pensabile
(o meglio: pensata) ad ogni eventuale
pensiero totalizzante.
ho l'impressione che fare quest'autocritica
possa rivelarsi una scelta vantaggiosa,
che eviterebbe ad un militante relativista
di cadere nell'errore di un
fondamentalismo di militanza relativista.
scusate la prolissità,
la contorticitudinitezza e l'eventuale
conseguente scarsa chiarezza,
ma abitualmente parlo
di Simpson e panini al prosciutto.
spero nella vostra risposta, saluti marco
Visto che Calvino è stato citato da Andrea e visto che è l'autore su cui lavoro da un pò mi permetto di riportare proprio alcune sue parole scritte per un argomento molto simile e, per cominciare ad infarcire questo blog che è partito in sordina, di aggiungere indegnamente il mio pensiero:
"non scambiamo la terribilità delle cose reali con la terribilità delle cose scritte, non dimentichiamo che è contro la realtà terribile che dobbiamo batterci anche giovandoci delle armi che la poesia terribile può darci. La paura per le cose scritte è una deformazione professionale degli intellettuali, che vogliamo lasciare tutta a loro." (il midollo del leone)
E' indubbio che la militanza culturale è l'unica spinta possibile verso un fare artistico sociale. Ma è ANCHE, e non SOLO attraverso la "poesia terribile" che ci si deve battere. E allora cosa aggiungere?
Nel suo ultimo film Moretti affossa un pò la militanza. Nel discorso dell'ingaggio, dell'impegno culturale contro Berlusconi, Il regista commenta che è tutto inutile, che tanto chi legge, chi va teatro, chi si informa, comunque già non votava Berlusconi; il messaggio non raggiunge il destinatario perché è sbagliato il mezzo. E' la vecchia storia di fare la canzone e suonarsela, o forse, meno allegramente, ingastrirsi per il gusto di essere ingastriti ma con il gusto un pò borghese di sapere perchè e percome lo si è e intanto lo stomaco continua a brontolare. Un'ottima testimonianza è proprio Il Caimano: portatemene uno, uno solo che l'ha visto e ha cambiato idea politica!
Dunque sì, scrivere e ricercare e sbattersi...ma quanti leggeranno Tabard di chi ne ha veramente bisogno? Al di là della ristrettezza di mezzi, quali possibilità veramente si crede che abbia questa rivista di andare a segno? Quali riviste l'hanno fatto? Non so spiegarmi motivi per cui pur accettando questa barriera si sente comunque il desiderio di ritentare la via della critica culturale, motivi che non siano di mera gratificazione personale. Forse è quell'ottimismo della volontà, non so. Se nel ristretto e autosufficiente dibattito culturale cittadino (?) un'altra voce teorica non può che far rumore (?) cosa ci si aspetta che possa cambiare nei reali meccanismi sociali un ingaggio come quello di Tabard se non fortificare spiriti già critici per il solo fatto di essersi posti il problema? Qui non si tratta di rilevare aporie relativistiche, si tratta di stabilire le reali potenzialità di una rivista di universitari. Non sono critico con chi prova, al contrario, provo una grande gratificazione nella comunione d'intenti; sono solo sfiduciato, e deluso dal sollievo che provo sempre e solo nel girare "culturalmente" intorno a questa sfiducia.
Per cui forse sì, forse più azione. Quale? ...aiuto!
"Pessimismo dell'intelligenza, ottimismo della volontà".
Paolo.
Vorrei cercare di evitare di dilungarmi sul tema militanza-relativismo, mediazione-intransigenza,
coerenza-autocritica. Non perchè sia poco importante parlarne, ma perchè - come quasi tutti i dibattiti
che nascono dal tentativo di conciliare istanze opposte - diventa problematico trovare una sintesi e per provare
a farlo occorrerebbe percorrere vie molto lunghe, portando il discorso su piani troppo distanti.
Partiamo da una domanda: è possibile capire in astratto come praticare una mediazione
intransigente, dicendo in anticipo quando e in quali casi l'accordo con altre interpretazioni del mondo o la revisione delle proprie idee sono un processo di evoluzione e non di svendita o incoerenza?
Probabilmente no.
A parte i pochi casi in cui i punti di partenza sono così diversi da rendere impossibile da subito ogni
mediazione che non porti ad un tradimento (ad esempio l'accordo di un pacifista ambientalista ed un petroliere
guerrafondaio), non credo che esistano criteri di distinzione a priori, ma solo a posteriori nella pratica.
E' vero che senza mediazioni il reale si ridurrebbe ad una opposizione tra forze tendenzialmente statiche.
Ciò non deve comportare, però, un meccanismo in cui il compromesso è una sorta di atto dovuto e necessario in partenza.
Se il compromesso è già ammesso in teoria come fatto necessario, allora le idee perdono completamente il loro
senso nella pratica.
Le teorie e le pratiche devono essere intransigenti (ovvero serie), ma senza paraocchi. Eventuali compromessi
sono eventi che accadono, di cui ci si assume la responsabilità e su cui il giudizio può essere dato a posteriori.
Però ora voglio arrivare al punto che mi interessa di più, cioè la
questione posta da Andrea sul rapporto tra cultura e bisogni della collettvità.
E' possibile che la stessa cultura ragioni su concetti e venga incontro al tempo stesso ai bisogni collettivi?
che una militanza culturale abbia al tempo stesso anche valenza sociale?
Direi di sì.
Però non può che trattarsi di una cultura con specifiche caratteristiche: una cultura che rinunci ad una separazione rigida tra ambiti e livelli diversi, tra astratto e concreto, tra vicino e lontano, tra locale e
globale, tra ciò che si comunica e i motivi per cui si vuole comunicare.
Quello che potremmo realisticamente fare, come gruppo e rivista universitaria che vuole essere pluridisciplinare senza essere un contenitore di oggetti e saperi slegati, è provare a mettere insieme questi ambiti diversi - sfruttando il fatto che se non altro siamo un certo numero di persone diverse per studi interessi e formazione - e pensare ad una produzione che
non sia slegata dalla vita, rilanciare un dibattito ed un pensiero che cerchi collegamenti tra teorie e pratiche.
Se ci riusciremo e se qualcuno ci leggerà, se la cosa avrà successo, se il nostro è solo ottimismo della volontà,
lascio la questione aperta, perchè forse il dibattito e noi siamo troppo giovani per trovare una risposta..
tanto per cominciare a lavorare su questioni pratiche
vi ripropongo alcune critiche che un po' di amici hanno fatto alla rivista
(sottolineando che loro, Tabard, l'hanno sfogliata ma non hanno letto nulla)
si tratta di critiche che certamente avrete ricevuto anche voi,
o comunque di possibilità su cui spero abbiate riflettuto.
io non sono del parere che "se uno vuole interessarsi si interessa":
il mondo è abbondante all'eccesso di informazioni, dunque è giusto
che uno scelga anche in basa alla fruibilità delle stesse.
ad ogni modo: ambasciator pena non porta e nemmeno un parer netto, in questo caso.
consigli e proposte per una maggior LEGGIBILITA' di tabard:
- inizio articolo a caratteri più grandi (roba alla venerdìdirepubblica, insomma)
- concetti chiave grassettati
- una divisione per paragrafi più evidente (tipo con interlinea 1,5 da paragrafo a paragrafo)
- foto inerenti in qualche modo all'articolo (come già si fà per gli articoli di arte)
(sembra stupido ma anche una foto di Ceserani quando di Ceserani si parla fa sempre bene.
magari la foto di Ceserani non fa proprio bene, ma il concetto è quello)
- riassunto iniziale (come parte II di ogni editoriale) degli articoli di ogni numero
("Santangelo ha affrontato il problema della... secondo un'ottica...
mentre Nanni si è occupata di..)
- maggior presenza parrassita sul territorio. (tipo post-it ironici e ammiccanti con link al sito
appiccicati in luoghi a cui ci può esser gente a cui tabard può interessare)
- qualcuno che segue il mondo dei blog che vada a commentare sui vari blog (tipo beppe grillo etc.)
dando un parere personale su determinati argomenti proposti ma inserendo poi nel proprio
commento il link al sito. (non ci credo che nessuno di voi ogni tanto non legge alcuni di questi
blog e non li voglia commentare)
tutto ciò, come idea generale, non mi sembra una svendita della poetica tabardiana,
anzi: mi pare che Tabard non possa che trarne vantaggio.
dopodiché alcune proposte decisamente non mi piacciono (vedi: inizio articolo con caratteri più grandi);
comunque possono servire. che dite?
mi spiace assumer la parte quello che non si interessa, non viene alle riunioni, mentre poi
si sente in diritto di criticare e consigliare via blog,
ma davvero sono incasinato in questo periodo... saluti Marco
interessante
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