Generazione e consapevolezza
Preso nei miei studi di primo Novecento ho a volte l’impressione che l’aver fatto una rivista sia un atto contrario non ai nostri tempi, ma alla nostra generazione. La sicurezza nell’affermazione di un insieme di idee è un atto arbitrario, lo sappiamo, ed è proprio questo il problema: lo sappiamo.
La costante sensazione di scimmiottamento è il prezzo che impone l’iperconsapevolezza. “Ogni volta che una generazione s’affaccia alla terrazza della vita pare che la sinfonia del mondo debba attaccare un tempo nuovo. Sogni, speranze, piani di attacco, estasi delle scoperte, scalate, sfide, superbie – e un giornale”. E’ questa una nuova forma di inettitudine? Come al solito, sull’onda dell’entusiasmo, siamo troppo ottimisti: è la solita forma dell’inettitudine.
La mancanza di “novità” si prospetta come male del secolo, sì, ma non crogioliamoci in un principio pessimistico (e già guardate come qui il discorso dovrebbe procedere a specchi, sappiamo infatti dove può portare una tale teoria, ci abbiamo fatto un numero sopra, ed era un numero ottimista), la mancanza di “novità” ci si prospetta ora come male…del secolo scorso. Siamo all’impasse che impone la via che abbiamo scelto, la condizione di critica permanente ci proietta in una situazione di immobilismo. E dato che non ho voglia di iscrivermi a un partito bisognerà pur trovare un’altra strada.
Se prendiamo i lavori di tesi dei contemporaneisti tabardiani abbiamo un’altra riprova del problema: Uno e molteplice nel primo novecento, il tragico di Achille, la personalità autoritaria, la concezione del comico di Eugenio (resta chiaro che Sancio Panza è il nostro patrono e solo per amor suo sopportiamo Don Chisciotte), il Rodari combinatorio di Matilde, i problemi joyciani e wittgensteiniani che porta avanti il lavoro di Daria, l’Oulipo di Paolo. Dovremmo a questo punto avere chiaro, sulla scorta di Nietzsche e di quel suo pronipotino che è Guido Guglielmi, che la letteratura combinatoria, la letteratura della FORMA, la letteratura che tende a fare della vita lo specchio del racconto (e non viceversa) è un’evoluzione del tema del “sorrido e guardo vivere me stesso”, cioè del tema di colui che non riesce a vivere se non nella propria mente, dell’inadatto alla vita, il luogo in cui psicologia e FORMA narrativa (come elemento predominante del racconto) si danno la mano.
Allora eccoci al punto cari compagni tabardiani, ed è un punto che riguarda proprio quel concetto di militanza caro al Severi, un concetto che a questo punto va (forse) totalmente rivisto. O prospettiamo anche noi la nascita di un mondo (anche solo un mondo teoretico-culturale) diverso, tabardiano (che è più o meno ciò che stiamo facendo), o ci prepariamo amarxianamente a riformulare (già fatto) l’idea di “teoria” e a riformulare (già fatto) l’idea di “prassi”.
Mimmo Cangiano
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