Tremate tremate i barbari son tornati
Tremate tremate i Barbari son tornati.
E Alessandro Baricco, forse inconsapevolmente, li guida: questa volta però si tratta di barbari veri, che non stanno dentro alle nostre mutazioni culturali, che non cambiano lo stesso attraverso la sfida dell’altro, ma che, lancia in resta, intendono portare una guerriglia urbana – e finanziaria – contro l’odiata – e certamente odiosa – civiltà.
Che la vogliono annichilire o, quantomeno, ricoprire di ridicolo.
Baricco, come si può intuire, non nasce guerriero impavido, ma, si sa, la Crisi che sembra avvolgerci ogni giorno di più (o di meno, dipende dalla direzione in cui va il suo côté ancora tutto postmoderno…) produce un fermento continuo e contraddittorio che potrebbe mettere le ali anche a galline e tacchini.
E, purtroppo, mettere un fucile in mano anche a placidi impiegati e a rubicondi contadini, che temono sempre più per la salute loro, ma soprattutto dei loro averi.
E così Baricco si lancia nella formidabile tenzone contro i finanziamenti pubblici alla cultura (o contro la Cultura?), sotto la forma - a dire il vero assai temibile… - delle sovvenzioni statali a teatri, festival, rassegne, convegni, fondazioni e associazioni.
Alla Lirica.
In una parola, alla malandatissima struttura della cultura umanistica, che non sta più al passo con i tempi, che il Grande Fratello manco l’ha visto passare.
Sic.
È ora di invertire la rotta, proclama Sandro Bondi, fedele scudiero del nostro. (O viceversa? …Ma non sono qua per dire che il nostro voglia così difendere degli interessi, perché, Santoro docet, sarebbe un’operazione tanto inelegante quanto controproducente…)
È ora di dare il soldo alle uniche istituzioni che hanno ancora un effetto culturale costante e tangibile sulle masse: scuola e televisione.
(…Dare fondi alla televisione? Mmm… Dare – forse s’intende questo – i fondi alla promozione culturale in televisione? Ma allora si faccia, perché si fa già, e con buoni riscontri di pubblico nonostante gli orari da incubo, del teatro in televisione. Ma allora si mantengano vivi i teatri stabili con i soldi della televisione. E il cerchio si chiude.)
Per non parlare degli effetti perversi che l’intreccio di questa scuola e questa televisione hanno avuto in questi anni: il revisionismo che si sostituisce alla pratica dello studio storico, per fare solo un (tutto sommato fulgido) esempio.
È ora di lasciar fare ai privati negli spazi in cui lo Stato non può (o non vuole) più intervenire – rincara Baricco. Certamente, e chi investirà mai in attività di poco esito come quelle da lui citate? Nelle stagioni dei teatri ex-stabili (ora precari, evidentemente), nei festival di musica contemporanea, nei convegni sulla poesia dialettale? E chi si potrà mai permettere una fruizione culturale non più calmierata ma libera di fluttuare secondo le esigenze del mercato? Il censo tornerà a fare da discrimine?
Dire di no alla chiamata alle armi del nostro mi sembra tutto sommato facile.
Ma bisogna dire anche altri no, per evitare di cadere nei paradossi di una politica culturale come quella attuale (o vecchia di poco) del nostro paese, fonte di sprechi, forse, ma sicuramente anche restia a investire in molti settori e, dov’è presente, a innovarsi.
No, nello specifico, alle battaglie di retroguardia: no al vecchio umanesimo che non conosce né tv né internet, che fa ancora distinzioni tra cultura alta e bassa (distinzione combattuta da Baricco ma poi surrettiziamente reintrodotta nel farsi della sua argomentazione), no alla difesa strenua di valori culturali elitari, se questi non sono adeguatamente rimessi in circolazione e fruiti (ma perché non pensare diversamente questo flusso, prima di tagliarlo alla radice? Questi ragionamenti ricordano più la filosofia della Tremonti-Gelmini che altro, purtroppo…).
No, per contro, alla festivalizzazione della cultura, al rendere qualsiasi aspetto della nostra vita culturale un “evento”, formula che moltiplica gli introiti ma che non crea mai i presupposti per uno sviluppo culturale sistemico e radicato nel territorio.
No, infine, alle sfide di basso profilo: la politica culturale del paese deve saper andare oltre “il bisogno di avere cittadini informati, minimamente colti, dotati di principi morali saldi, e di riferimenti culturali forti”. Anche perché questo non è un bisogno ma un presupposto dei regimi democratici che qui si invocano.
Se siamo già al livello del bisogno, i motivi (leggi , tra le altre cose, i tagli…) non mancano né sono mancati.
Lorenzo
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