Con Mimmo e Lodo se ne parlava in treno l’altro giorno. (Forse)
Io per esempio sostenevo (implicitamente) che alla base di ogni critica c’è una recensione entusiasta. Alla base, non alla fine.
Che, se no, si fa lo stesso lavoro dei critici letterari di Repubblica e del Corriere della Sera, impegnati a stilare le classifiche degli ultimi 16 capolavori “del mese”, a volte della settimana.
É una recensione, d’altronde, mica un’adesione entusiasta (che è anche sempre un’adesione, un prostrarsi, alle strategie di marketing del mercato editoriale), che davvero può stare alla base della critica. Una sorta di distanziamento, con relativo piacere, nel processo di avvicinamento all’oggetto artistico.
(Questo, mi sembrava di avere colto, almeno)
Allora, io voglio spendere subito la mia recensione entusiasta (UNA delle mie recensioni entusiaste) per il concerto che ha tenuto Michele Pattone/Mike Patton, con la Filarmonica Toscanini di Parma e una coorte di altri musicisti, tra cui l’immarcescibile Vincenzo Vasi – theremin – il funambolico Gegè Munari – percussioni – e l’Enri all’Hammond, in Piazza Santo Stefano, a Bologna, venerdì 18 luglio.
Perchè io lì mi sono veramente divertito. E se scrivessi per una rivista musicale – cosa per la quale non ho, però, nessuna capacità... – al riguardo avrei scritto
appunto, senza scrupoli, un pezzo altamente euforico, un elogio disperatamente sperticato, in calce un invito a cena (o a bere) per Mike (e Vincenzo e l’Enri, e gli altri).
“Mondo Cane” è una grande esperienza. Grazie agli arrangiamenti sempre puntuali, a volte anche decisamente creativi e divaganti, di Daniele Luppi, le canzoni italiane degli anni 50 e 60 rivivono nella voce dionisiaca di uno dei grandi del funk metal, ma anche dell’indie hardcore e del jazz sperimentale. Patton canta Buscaglione, Modugno, Tenco, Arigliano, Celentano, Mina, Mal dei Primitives. Tocca vette assolute riscoprendo gemme del beat italiano come “Urlo Negro” dei Blackmen o superandosi in “Quello che conta” di Salce/Morricone cantata da Tenco nel film “La Cuccagna” (1962) e in “Senza fine” di Ornella Vanoni.
Scandisce bene, tocca vette musicali, torna sulla terra e poi sprofonda, nell’inferno del nostro canzoniere, facendo emergere il lato oscuro, più perverso e meno immediatamente godibile, delle canzoni d’antan. Che erano Tenco, e Tenco le era.
A un dato momento ci fa difficile anche sorridere, quando, dopo queste rivelazioni anti-canoniche, si cambia di repertorio e compare “Pinne, fucile ed occhiali” di Edoardo Vianello.
L’orchestra non è da meno, anche se il mio povero orecchio non ne ha colto molto. Gli altri musicisti eseguono, ma anche improvvisano. Si sapeva già che non c’è nessuno come Vincenzo Vasi, grande maestro della sperimentazione.
Gegè Munari fa un assolo di batteria al secondo pezzo che vale la serata.
La gente, comunque, Michele Pattone non me ne voglia, è il vero spettacolo.
Ascolta, sorride, canta, balla. Si entusiasma.
E sono soltanto “le canzoni di una volta”, ma cantate da un menestrello dell’hardcore made in USA, in una giacca bianca che luccica anche se lo guardi dal fondo della piazza, grazie ad un’investitura di luce alla Blues Brothers, con i capelli ravviati da chili di brillantina, simulando gesti da mafioso che fanno solo ridere, “per fortuna”, cantate da un santo bevitore che è stato folgorato sulla via di Damasco dalle nostre radici musicali folk, beat e pop.
...Pop! Musica che è la grande assente della serata, tra cavalcate rock, improvvisazioni jazz, brandelli di beat e arrangiamenti classici.
Ma Mike Patton riscopre la musica pop come musica popolare, questo è quello che volevo dire dall’inizio del post, e la fa ballare alla gente. Non ne fa il vessillo di un’identità nazionale (che non è la sua), ma ne da una lettura filologica attenta, e vi innesta una sperimentazione micidiale.
Mi ricorda Gramsci – scusate, lo dicevo, che poi alla fine arriva la critica con la C maiuscola – e la definizione di “letteratura popolare”. Me la ricorda, sì.
Mondo Cane, Mike Patton.
Dieci.
Lorenzo M.
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