Declino, melanconia, limbo: un inferno dolce
La melanconia, dalle mie sfogliate di libri e soprattutto dalle mie sensazioni, è quella roba - affetto - che in estetica, psicopatologia e storia dell’arte è considerata ben più ‘grave’ della ‘depressione’, anche se meno pericolosa - non ci si ammazza per ed in essa - proprio perché statica - non mi ritrovo con la parola declino proprio perché allude ad un dinamismo seppur terminale -; la melanconia è a-drammatica, quasi chetata e fuori dal tempo. Un affetto nostalgico di un dolore, una perpetrazione e perpetuazione luttuosa di non si sa bene cosa - una nostalgia senza oggetto -, una sospensione dal piacere, dalla ‘chiamata’ vocativa, dall’ispirazione, un sentimento urbano ed estremamente distaccato tanto da diventar quasi un meta-sentimento (?), uno stato d’animo che ci difende e che crea e sostanzia un vero e proprio limbo, ossia un contenitore sfumato ed indistinto così come ciò che contiene, una brocca di vetro con ai bordi un fumo denso ma non troppo, luogo eletto - ma senza essersene resi conto, la scelta del limbo è un controsenso, nel limbo ci si finisce - del proprio ritiro. Insomma non si sta proprio male nel melanconico, nel declino, nel limbo, soprattutto se si esce dalla psicosi di un paio di guerre mondiali e dalla perversione distorcente della guerra fredda totalitaria, con annesse depressioni consumistiche, ma non ci si sta nemmeno così bene in questa evanescenza, nel nulla che succede...
Eppure il limbo può essere stimolo, luogo di creazione ed ispirazione - lo psicanalista Pontalis proprio al limbo ha dedicato un lungo saggio elogiativo, dal sottotitolo ‘un inferno più dolce’ - pur nell’assenza di investimenti valoriali o pulsionali - sempre nell’indistinzione identitaria ci si trova -, luogo del dandy (sì, ci so’ tornato), o per lo meno luogo del melanconico e distaccato dandy che, in procinto di una gita, chiede distratto al suo maggiordomo: «Archibald... Which lake do I prefer?» [Che lago preferisco?], figura che l’artista concettuale italiano Giulio Paolini - che personalmente adoro - riprende per dar conto nelle cose che scrive della supposta ‘creazione’ dell'artista, arrivando - alle mie orecchie di wittgensteiniano ed amante folle della Critica della Facoltà di Giudizio di Kant - a delle intuizioni geniali, per quelle linee di calembour e deviazioni, di visioni e riflessioni a specchio che pochi artisti permettono a se stessi, come prestigiatori che non solo non vogliono rivelare i loro trucchi ma quasi non ci vogliono pensare loro stessi.
In sintesi, anche se lui non lo dice così, si arriva a vedere come si tratti proprio di prendere i conigli da dentro il cilindro (vuoto?) del prestigiatore - questa per me l’unica immagine (la propone lo scrittore di fumetti e non solo Alan Moore) che riesce a dar conto dell’arte e quindi del pensiero umano e dar senso a quella domandina futile futile del tipo “ma da dove prendi le idee?” -; insomma si tratta di prendere e riconoscere, nel distacco da sè e nelle sue ricomposizioni. Quindi il limbo - o il declino, ma forse qui sono fuori tema, non so, in realtà scrivo tutto questo perché me lo diciate voi - può perfino avere forme di vita al suo interno, magari non battezzate, senza colpa quindi forse senza nome o volto, sicuramente non generate - nel limbo non c’è sesso - ma trovate lì... Insomma, esercitando e declinando la propria soggettualità - la preferenza -, il dandy, come noi tutti, compie un declino - dal pieno al vuoto, dall’Io come illusione identitaria e direzionalmente desiderante al soggetto come buco della creazione intesa come riconoscimento e riempimento -, e trova in esso dunque la possibilità del pensiero stesso, del pensiero realmente pensato, del pensiero non (solo) ermeneutico, del pensiero ex novo poiché ex nihilo dal cilindro; davvero bizzarro, pensando a come il limbo pietrifichi invece il soggetto e lo avvolga di Ombre e Nebbia (dopo averne letto il soggetto, o forse la sceneggiatura teatrale, sono anni che vorrei vedere ‘sto film di Woody Allen, mi sa che è arrivato il momento di affittarlo).
E qui entra, o pensando al personaggio esce, Bartleby lo scrivano, con il suo ‘I would prefer not to’, strana forma grammaticale - una possibile traduzione in italiano è ‘avrei preferenza di no’ - reiterata stolidamente e malinconicamente per declinare qualunque richiesta, invito o comando ricevuto dagli altri - Bartleby distrugge la contestualità del linguaggio -; formula che non esprime una volontà di non..., ma una volontà di no, un nulla di volontà - e già che si ci siamo Bartleby distrugge la referenzialità del linguaggio -, formula che lo porta fino a perdersi, non in senso di una follia deliroide, ma come e vera propria sparizione. Questi ultimi due incisi, quelli su B. ed il linguaggio, li devo al poco che ho capito di un saggio di Deleuze - che a me di norma non fa proprio impazzire - proprio su Bartleby, ma qui ho bisogno proprio di andarmi a rileggere Mellville dato che saranno quasi dieci anni; comunque spero che un po’ ci siamo capiti, Bartleby è proprio la forma melanconica per eccellenza, cui penso in termini se volete ‘negativi’ - non fa proprio ‘sta bella fine -, e però nel suo essere puramente ‘il limbo’ (mi) dice veramente moltissimo, diventa esemplare di tanta roba che mi vedo attorno ed indosso, esemplare non in senso statistico e sociologico ma come categoria dello spirito - ok, io non è che sappia bene che cosa sono le categorie dello spirito, ma per dirla più semplicemente è un uomo senza qualità, anche narrative, se non quella declinante: sembra una macchietta ma non da due soldi e con qualcosa da dire al posto del solito tormentone, e quel qualcosa è nulla, è una maschera senza bisogno di volti o ammenicoli, un caratterista del nulla, un soggetto senza io (o viceversa, mica ho capito bene).
Vabbè, tutto sto casino è quanto, che ovviamente non giunge a nulla (limbo, ricordate?), così tanto per ‘socializzare’ quello che mi passa per la testa, sperando magari di ricevere qualche cosa, commenti e consigli soprattutto, me anche improperi, che come si vede non è che abbia le idee molto chiare su sta roba che mi riguarda parecchio.
Ah, degli Amish - mica me ne ero scordato - ve ne parlo, forse, n’altra volta (in sintesi Amish=limbo=tolleranza ovvero gli Amish sono fuori dal tempo storico, in teoria fuori dal declino, per provare a vivere un tempo ‘umano’ perché divino e quindi agli Amish non gliene frega un cazzo di nulla, possono vivere in mezzo a persone che non stimano affatto e di cui non condividono affatto gli stili di vita ma non rompono le scatole a nessuno, se si continua il paradosso - che è di Slavoj Zizek - alla fine si vede che gli unici tolleranti o aperti sono loro, gli unici che smontano i giochi delle convinzioni e delle invidie...).
Francesco
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13 Commenti:
Oh Bartleby! Oh Humanity!
La curiosità su ciò che verrà detto sugli amish, per i quali provo una strana attrazione dai tempi di amish paradise(si trova su youtube per i cultori del genere) mi spinge a non dire altro se non che, quello che ho letto, è tanto interessante quando cade a fagiuolo con mie letture recenti come e. vila matas e g. perec, che chi scrive avrà già masticato a dovere, suppongo.
Attendo, paziente, la puntata amish perchè giulio paolini non mi ha mai convinto troppo...e sì, direi che ombre e nebbia sia proprio imperdibile. Anche per chi non sia un h.a.s.konigsberg-addicted come me
il vila matas su Bartleby l'avevo preso tanto tempo fa, quando uscì da feltrinelli, sfogliato cabalisticamente ma mai letto per bene, forse è il caso di ritrovarlo ed immergersi, mi era completamente passato di mente (ed anche da sotto agli occhi, chissà dov'è finito), meno male, oh anonimo!, che l'hai tirato fuori
lieto che ti sia interessato sto delirietto personale, sugli amish in realtà c'ho ancora troppa roba da capire e il tempo è quel che è, spero ne venga fuori qualcosa di sensato, per adesso sono l'elemento meno messo a fuoco, grazie alla visione di amish paradise c'ho capito qualcosa di più...
di paolini io sono rimasto travolto dal recente 'quattro passi nel museo senza muse', e da un vecchio testo anni '70 con bellissima introduzione di calvino -erano amici e sodali-, mo non mi ricordo il titolo, diciamo che mi sono moolto ritrovato e riconosciuto in quello che scrive - e che fa-
mi ha colpto l'associazione con perec...
Io non riesco a seguirti nei collegamenti col declino. Il limbo per esempio, non-luogo a-storico ed eterno come può richiamare il declino (che è in un certo senso un moto a luogo, lo dici anche tu)? Non ce lo vedo il limbo-declino come luogo creativo, non nel limbo cristiano-dantesco almeno. Per quanto riguarda Bartleby non posso esprimermi perchè non l'ho letto, ma certo che, ora che mi ci fai pensare, col declino c'entrerebbe un bel pò un altro testo del buon Melville: Pierre o delle ambiguità su cui ho lavorato da poco. E lì i temi della fine, dell'autoannullamento e della potenza del linguaggio come creatore di realtà sono principali. Mi accodo anche io all'attesa dello scritto sugli Amish, sono curioso di leggere cosa ne dirai in relazione a quanto detto.
soccmel che tempismo: appena finito il commento guarda che ansa che esce.
boh, per me non è che declino e limbo siano sinonimi, più che altro il declino dell'impero o di quel che è si oppone alle figure limbiche e malinconiche -ai bartleby- perchè quelli, per lo meno a mio sentore, rimettono in gioco un irriducibile -soprattutto socialmente o sociologicamente- soggettività, epperò a me in st'articolo -certo non coerentissimo- interessa chi declina... come conseguenza o 'scelta' (inconscia, ecco perchè le virgolette) del limbo in cui si trova, di qui il dandy, bartleby e gli amish,
pierre o delle ambiguità non l'ho mai letto, l'ho trovato più volte citato in un saggio intricato di Agamben su melville, mo mi so' proprio incuriosito ( a dirla tutta con benito cereno o soprattutto billy budd non è che si vada così lontanti da barltleby, ma lo scrivano per me, ma ho visto che è condivisa in giro, rappresenta un vero e proprio grado zero di quello che qui mi interessa)
il fatto, detto sic e veramente molto simpliciter, è che non credo ci troviamo in un declino, nel senso di un qualcosa di dinamico, che poi arriva ad un punto, archimedico o meno, e puff, nuovo giro di ruota, si risale e si ricomincia; mi pare invece che ci siano sacche di movimento e staticità (zone di alta e bassa pressione) culturali e politiche, che tendono molto ad un qualcosa di indefinito ['nzomma! c'abbiamo fatto il numero su quello che mo' si chiama post-moderno, quindi evito di addentrarmi oltre]
riguardo il ligame limbo e creatività, boh, c'è un corposissimo e complicatissimo e tecnicissimo saggio di una psicanalista (Lambotte, Il discorso melanconico) che lo prende come idea centrale
in realtà io penso a paolini e soprattutto a savinio, uno che nel limbo ('desengagement' si dice no?) continua pure postumo a starci (mica se riescono a trovare le sue composizioni, io le ho sentito una volta sola per radio ed anticipano stockhausen di 20 anni!!!!!!!). Ah, per me un altro limbico - vila matas fa un elenco ma è molto più complicato lì- è l'ex leader dei talking heads mr. David Byrne, cosmpolita, songwriter, fotografo e artista contemporaneo, con quel gusto bambino e modesto, da ubu
p.s. bellissima l'ansa, peccato!!! mi mancherà il limbo, mi consolerò con il mambo [ok, te lo posso dire, sono il ghost di nazinger]
caro fran-te-sto
l'anonimo che poi è un'anonima, cultrice della storia del No, come vila matas insegna(anzi compendia, in un vademecum da me ormai inseparabile)ringrazia per aver accettato i suoi consigli...direi che di perec ne riparliamo. di occasioni non ne mancheranno.
La notizia sul limbo mi sciocca(grazie paolo, hai spezzato i miei sogni di ballerina...per anni il mio orgoglio di bambina "fuori dalla grazia di Dio" era la certezza che avrei ballato il limbo in eterno e già mi allenavo per avere un fantastico gioco di bacino)vorrà dire che mi dovrò adattare. secondo voi che balli fanno gli amish?!
a plus
imparato molto
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