14 gennaio 2008

Rimpianti e progetti



Forse per via delle mie origini campane, con cui spesso mi piace giocare senza temere di varcare la soglia dello stereotipo (o meglio varcandola di proposito e con grande divertimento), mi ritrovo spesso a citare Massimo Troisi.

«Ci dobbiamo dare da fare per avere una gioventù da rimpiangere». Con questa battuta del comico napoletano qualche tempo fa mi sono procurato lo spunto per chiudere un articoletto uscito su Griseldaonline con il titolo, per l'appunto, di Gioventù da rimpiangere.

La battuta è tratta dal poco noto trailer del film Che ora è? di Ettore Scola (che dopo un infame lavoro informatico - per mia incapacità demandato al gentilissimo Paolo D.G. - ho pensato di rendere fruibile a chi dovesse incappare in queste pagine, che almeno ci si rende un po' utili via).

Andare a riprendere questo articolo dopo tanto tempo è un'esigenza dettata da una discussione appena abbozzata in passato con un amico e che mi piacerebbe approfondire adesso. Nel finale di quel pezzo affermavo (cito testualmente) che: «In questa battuta [di Troisi] mi sembra di vedere sintetizzata la necessità di portare le nostre vite a fare storia, ma non nel senso romantico di renderle memorabili, quanto piuttosto in quello molto più concreto ed umano di trovare loro una dimensione soddisfacente».

Riflettendoci, obiettivamente in questa affermazione sembra esserci un certo grado di progettualità, nonché di rispondenza a dinamiche che caratterizzano fortemente la generazione precedente la nostra (quella dei padri intendo). Vale a dire costruire per rimpiangere, animati da uno spirito narcisistico e sostanzialmente conservatore, come nell'estetica dell'anelito al "tempo che fu" (non è proprio tutto un caso che questo pezzo sia stato riciclato anche nell'ultimo numero di Tabard sul declino).

Ma questa non è l'ottica con cui quella battuta sarebbe stata detta dall'autore Troisi. E quindi sì, c'è effettivamente una mia forzatura rispetto alla leggerezza "tragica" e ironica di Troisi. Sta di fatto che per me quella battuta però non esprime tanto l'idea del progetto quanto quella della ricerca. Che è innanzitutto la ricerca di uno spazio proprio, magari per disorientamento preceduta dalla ricerca dei/sui personaggi che quello spazio lo popolano (come nel piano sequenza finale di Pensavo fosse amore invece era un calesse, quando con un memorabile carrello in soggettiva Cecilia [Francesca Neri] raggiunge Tommaso [Massimo Troisi] - che l'ha abbandonata all'altare - e nello scrutare lo spazio del bar in cui si svolge la scena lo trova pieno di coppie. Quello stesso spazio, quando l'inquadratura si rivela una falsa soggettiva - ovvero un occhio esterno e distaccato, che nulla proietta - appare poi vuoto, popolato solo dai due protagonisti seduti al tavolino a parlare con solo le loro voci che infine si arrovellano sui titoli di coda).

E quindi: è chiaro che si cerca con un obiettivo. E, facendo delle proiezioni (ci caschiamo tutti), è altrettanto palese che l'idea di godersi quell'obiettivo è un po' un progetto, un'aspettativa. Ma in Troisi l'obiettivo risulta in conflitto con il principio stesso della ricerca, che è fatta di approcci confusionali e distanti e che non ambisce a una forma definitiva e suadente (di cui è priva anche la voce di Troisi). Ciò non ostante non s'intende rinunciare alla possibilità di andare incontro a un tramonto (immagini chapliniane nella mente) che è già uno spazio. Questo spazio non definitivo può rappresentare la "dimensione soddisfacente" di cui parlavo. Nella a-progettualità di Troisi, in quella battuta che è un rifiuto ironico di un modello, io ci ho letto però la possibilità quasi di una prassi, ma in senso più proprio di un invito, o di una provocazione. Mi piacerebbe continuare quella discussione, con in più il contributo di chi ne dovesse aver voglia.

Vittorio Martone


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3 Commenti:

Alle 1/14/2008 09:31:00 PM , Anonymous Anonimo ha detto...

L'infame lavoro informatico era il minimo che potessi fare dopo essermi rivenduto la tua spiegazione del piano sequenza finale ad un esame a Parigi che mi ha fruttato lodi sperticate e un voto eccellente. (secondo grado! secondo grado!)

Mai come ora ho sentito la necessità di capire, e di circondarmi di elementi atti a capirlo, cos'è questa "dimensione soddisfacente" delle nostre vite.
Ma che soddisfaccia cosa? Quale esigenza? Secondo quale metro di giudizio, che deve essere poi per forza personale? Non capisco poi perché quella nota di biasimo alla "progettualità", e credo che l'anelito al tempo che fu sia molto più nostro che dei nostri padri che han vissuto in un tempo che guardava fortemente all'avanti. Se c'è una cosa di cui la nostra generazione è stata privata è proprio la speranza di progettazione collettiva.

Quindi Troisi ci invita a costruire una dimensione, senza mai smettere di costruirla? Guai a raggiungere il tramonto? Però è bello che la ricerca sia ricerca di uno spazio (di una dimora fissa? magari in provincia...).

 
Alle 1/15/2008 02:55:00 AM , Blogger Francesco ha detto...

vittò, io sinceramente a leggerlo così, soprattutto il paragrafo finale, ci ho capito poco,

a me sinceramente la battuta di troisi, perfida come poche, piaceva assai -inquietava- perché nel proporselo sgretola ogni possibilità di piacere o di quel che sia, non solo perché lo progetta - da quel molto poco che ne so il piacere (due risate, due paccate, quel che sia) non è volontaristico- ma perchè lo sposta temporalmente, intreccia futuro e presente, rimpianto e piacere; intreccio addirittura essenziale al suo progetto, prospettico (prospettiva per me è meglio di obbiettivo) e volontario.

la paradossalità del tutto insiste forse proprio sulla non volontarietà non solo del piacere, ma nemmeno del rimpianto. C'è un filosofo (o sociologo, boh?) di nome Jon Elster che parla di "stati essenzialmente secondari" (me li fossi ricordati prima me li sarei giocati per l'ultimo numero), tipo "innamoramento", "saggezza", "opere d'arte", tutta roba che di certo coinvolge la tua volontà ma il cui darsi non dipende da essa, insomma tu puoi volerti innamorare (primarietà), ma se succede non dipenderà da ciò.

Troisi ti dice poi che se tu lo vuoi, vuoi primariamente, coscientemente, una secondarietà (piacere? dimensione? decidi tu) dato che il volere mette giù in campo un oltre, un dopo, beh si cade nel paradosso del rimpianto, ché quando entra il tempo(creperemo tutti) in campo so cazzi.

insomma per me piacere=roba secondaria, ovvero che t'arriva fra capo e collo, -qui secondario forse è strambo ma mi pare abbia senso - se tu ti sei aperto a queste eventualità, il che mi pare allora la vera "prospettiva", in parte ma non troppo anche un poco volontaristica

 
Alle 1/16/2008 01:06:00 AM , Anonymous Anonimo ha detto...

Innanzitutto chiarisco: non ho detto che nella battuta di Troisi ci fosse un invito. In realtà, come ho scritto, sono stato io a forzarci dentro un significato, che era in linea con la questione dello spazio di cui parlavo nel mio articolo. Poi sì, nel complesso di questa lettura c'è qualche elemento di volontarismo, proprio perché credo che la "dimensione soddisfacente" debba essere personale, e determinare uno scarto. Soprattutto rispetto a progetti imposti dall'esterno.

La ricerca quindi, io da subito l'ho inserita in un quadro molto più legato ad una questione politica, sociale (non che il piacere non rientri anche in questi campi, ma allora sarebbe meglio parlare di benessere - che ho delle resistenze a connettere piacere e politica, come se lo si demandasse o, peggio, lo si dovesse ottenere come un dovere e, ancora, un progetto).

Dirimere la questione è complicato per me, proprio perché una forzatura rispetto alla battuta da parte mia c'è stata (un tradimento di quel paradosso che mi piace scoprire legato agli "stati essenzialmente secondari" di Jon Elster - grazie France', mi leggerò qualcosa).

 

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