21 maggio 2008

Note su New Italian Epic di Wu Ming 1 ovvero come liberarsi dal postmoderno

È ormai un luogo comune che non si possa proporre interpretazione storica dei fenomeni recenti; tanto più interessante, quindi, la proposta di periodizzazione letteraria 1993/2008 formulata da WM1, nel suo recente intervento sul New Italian Epic. Un ritorno alla «storia», anche se a costo di qualche schiacciamento prospettico.

NIE: una nebulosa, più che una scuola, un insieme di tendenze per descrivere un assetto della letteratura italiana più recente, raccogliendo quegli autori che cercherebbero di tornare al racconto della realtà storica, accantonando le piacevolezze postmoderne del narcisismo letterario. WM1 cita Saviano e De Cataldo, ma anche Evangelisti, Genna, Babsi Jones, Carlotto, Camilleri, Philopat... fino agli stessi Wu Ming. Superamento della nozione di contaminazione per nuovi oggetti narrativi "non identificati" (UNO nel testo), recupero di un'etica del narrare, sguardo obliquo e sperimentazione sul punto di vista, accompagnata da uno sperimentalismo linguistico «nascosto» e sotterraneo; complessità degli intrecci che si sposa con una capacità di riutilizzare elementi della popular culture e multimedialità della scrittura, recupero del romanzo storico e della alternate history fiction; questi, in estrema sintesi, gli elementi che caratterizzano il nuovo filone narrativo.

Questa New Italian Epic ha ben due certificati di nascita: uno, emotivo, direttamente legato all'esperienza di chi scrive, è il Duemilauno; l'altro, ricostruito nei nodi della critica, è il Novantatré.

L'11 settembre 2001, non bisogna dimenticarselo, è uno di quegli eventi di cui è possibile chiedere: «Ma tu dov'eri quando...?». Così come Genova, anche se in misura minore. «Io c'ero», o «Anch'io c'ero», frasi che creano appartenenza a una comune storia. Non è casuale che le fondamenta emotive del New Epic siano poste proprio in quell'estate aperta dai lividi e chiusa dal crollo delle torri... Come se quello fosse il punto di una rinascita, come se le torri gemelle implicassero il bisogno di ritornare alla storia - o, per alcuni, la sua miracolosa «resurrezione».
Anche il 1993 è stato un anno chiave per la storia d'Italia, e da un punto socio-politico ci ha sostanzialmente immessi nel mondo in cui viviamo. Ma a livello letterario, la permanenza del periodo 1993-2002 in una linea di continuità con la New Italian Epic rischia di sembrare teleologica e forzata, costruita a posteriori. È vero che la linea del ritorno alla letteratura di genere (noir, giallo, splatter) è una costante del periodo, affermata fino al punto da costituire un solido strumento a disposizione di chi scrive oggi. Ma possiamo leggere in questo un unico movimento?

Il vero bersaglio del 1993 è un altro, il famigerato post-moderno, canone inverso della New Italian Epic. Il riferimento è a Fukuyama (The end of history or the last man, del '92, tradotto in italiano l'anno successivo), ed è in reazione alla fine della storia che si costituirebbe il nuovo canone.

Proprio il richiamo a Umberto Eco, padre del postmoderno nostrano, costituisce il punto critico dell'articolo, (o l'elefante nel tinello, per riprendere l'espressione di WM1): la citazione del Nome della Rosa finisce per assumere, di fatto, uno statuto di "mediazione" tra modalità letterarie diverse. «Come direbbe Liala», «Nonostante Liala»... siamo sicuri di aver davvero voltato pagina, di aver radicalmente cambiato paradigma?

Rimane il fatto che una buona parte del ragionamento critico sul New Epic potrebbe adattarsi alla perfezione a un romanzo come Underworld di Don De Lillo, per tirare in ballo un altro elefante. Per la multimedialità che caratterizza la trama delle citazioni e dei riferimenti; per l'accavallarsi delle narrazioni, la discontinuità narrativa e temporale; per la portata storica del romanzo.

Il postmoderno non è solo un atteggiamento psicologico, e nella passione per la pop culture, così come nella miscelatura dei generi, o nell'incontro di testualità diverse, c'è lo stesso atteggiamento orizzontale e paritetico che caratterizza anche il lato più ludico del postmoderno. E forse, andando a guardare da vicino in quello che WM1, da un punto di vista linguistico definisce "sperimentalismo nascosto", si scopre un linguaggio non tanto sperimentale quanto mediatizzato e orale (parliamo di oralità secondaria): forse è proprio questa presenza in voce, anche se differita, che lo rende "epico"?

In fondo anche quest'epica senza straniamento, un curioso e disinvolto modo per sbarazzarsi di Brecht, reso ancor più curioso dal contestuale recupero di Benjamin, sembra dire che il postmoderno è ancora tra noi, ineliminabile, pronto a trasformarsi nel suo opposto con una capacità di riciclo strabiliante.

Valentina


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1 Commenti:

Alle 5/21/2008 11:59:00 PM , Anonymous Anonimo ha detto...

Eppure, al di là del luogo comune e di una certa inerzia elencatoria, siamo poi così sicuri che DeLillo sia postmoderno? A me sembra che ci sia un DeLillo prima di Underworld e uno dopo Underworld, e L'uomo che cade mi sembra molto diverso dai libri che scriveva trenta o vent'anni fa.

 

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