11 settembre 2007

Incubati

Riporto qui un pezzetto scritto un mese fa, la cui pubblicazione fu bloccata dall'annuncio d'entrata in ferie. Non l'ho ritoccato, se non per poche cose. Per il resto è la versione "originale" da 4 di notte.

Questa è una cronaca. Giustificazione previa.
Arrivo all’aeroporto di La Habana. Sbuco da un aereo proveniente da Caracas preparandomi ad aspettare una notte il mio volo per Città del Messico. Ciò che si dice una scala. (Un poco anomala, perché con due compagnie diverse: acrobazie internetiane per risparmiare denari). Mi fermano nel limbo prima dell’ufficio di migrazione (trad. letterale...va bene?). Sono ciò che si dice un passeggero di transito, in Cuba fisicamente, però no formalmente. Nel non-luogo del non-luogo. Mi siedo fumando molte sigarette insieme a una signora cubana (il divieto è evidentemente fittizio). Aspetto mezz’ora, l’una di notte. Lei affianco tira su col naso e si lamenta bisbigliando, aspirandosi j e g, ellezzando le r, mangiandosi tutto con la classica maniera cubana, a valanga. Io, non capisco un cazzo. Dopo tre quarti d’ora che aspetto il signore che doveva risolvere la mia situazione limbica, ci si avvicina un altro con uniforme verde del Ministerio del Interior. Ci chiede che facciamo qui. Siamo gli unici passeggeri a non aver passato la migra. «Sono deportata», dice lei. «Ah», dice lui, «e tu?», a me, «sono di transito», dico io. Si allontana. Non mi azzardo a chiedere altro alla mia compagna fumatrice. Inizia a parlarmi lei, poco, non sforzandosi molto di più di prima per lasciarmi capire, come continuando a lamentarsi da sola. Viene da Amsterdam, mi dice. Poi aggiunge: «vengo da Israele». Non capisco. Poi penso a ciò che si dice scala.
Altro quarto d’ora. Viene un altro signore uniformato, con tono gentile. Non so perché mi dà sicurezza quando le parla, placa la mia immaginazione.
«Non le hanno dato documentazione».
«No, solo questo», (lo ha lui in mano).
«E con lei non è venuto nessuno, stava seduta aspettando il volo come un passeggero normale». Le domande sono tre quarti affermazione.
«Sì».
«Stava sola».
«Sì».
Immagino l’immagine. Sono stanchissimo, un poco patetico, da immaginerie facili e filmesche, spero solo di riuscire a dormire e arrivare presto in Messico per riprendere per poco ancora la mia vita provvisoria lì lasciata da un mese. L’uomo se ne va con la signora. In un minuto lei mi è di nuovo affianco. Le chiedo, a questo punto.

La cronaca è questa, cerco di non narrativizzare o drammatizzare adesso, e in italiano, ciò che mi racconta in maniera totalmente confusionaria, ridondante, efficace. (ovviamente narrativizzerò, è inevitabile, però cercherò di renderlo asettico, sono stanco).
Una storia normale e tipica (fino a un punto che indicherò), di quelle che ho ascoltato molte volte qui a Cuba. I figli della signora vivono in Israele. Sposati con due israeliane (uno degli unici modi, come risaputo, per uscire dall’isola: fattore distorsionante, uno dei molti, del rapporto con i cubani per uno straniero, ma questa è un’altra storia). Con una “lettera d’invito” (trad. letterale) la signora va a trovare i suoi figli. Ha un visto di sei mesi. Poi, ovviamente, decide di rimanere, illegalmente. Fin qui la storia normale e tipica (per me fin qui, magari per altri lo è anche il seguito).
Mi dice che in Israele “non hanno voluto rinnovarle il visto”. Rimane lì un anno e mezzo, finché (salto: non mi spiega come succede) finisce in carcere. Rimane dentro un mese, poi la polizia israeliana la mette in un aereo per Cuba.
Vengono altri signori con la stessa uniforme. Calmi. Parlano davanti a me, senza nessuna riservatezza.
«Signora, per noi è difficile. Chiaro che per lei di più. Dobbiamo rimandarla in Israele».
Accendo un’altra sigaretta. La signora esplode, però in maniera strana, senza gridare, rassegnata, spossata, un’esplosione calma, senza disperazione. Parla a frammenti. Traduco le frasi più ripetute:
«No (molte volte, come a dare un ritmo nascosto e irregolare, infilandocelo a volte una parola sì e una no), io non ci torno in Israele, mai più, lì passo di nuovo quello che ho passato, lì mi rimettono in carcere e poi? (altri ritorni: lì/qui), io voglio rimanere qui nel mio paese». Mi confonde molto questa ultima frase. Il signore la invita (finalmente) ad allontanarsi.
Quando la signora torna nuovamente sola, le chiedo come un completo coglione se la rimanderanno davvero a Israele. «Domani mattina». Sono le 2 di notte. Attonito, ovvio. «Perché», le domando, coglione. «Perché quando te ne vai da Cuba non puoi più tornare». (Cioè quando tenti che il viaggio legale si trasformi in “fuga”). Parliamo ancora un poco. Io non riesco a dirle molto. Lei mi chiede dove vado, di dove sono, da dove vengo (tre risposte tre paesi diversi). Come sempre quando un cubano mi chiede in quali paesi sono stato in vita mia mi sento irragionevolmente colpevole (ma bastava il fatto di essere turista in Cuba).
Lei sempre annuisce. Parla fra i denti. Mi parla dei suoi figli. Le chiedo come è stata trattata nel carcere israeliano. Mi dice che non le “hanno fatto mancare niente”, per lo meno. Mi spiega che da Israele non hanno comunicato nulla a Cuba, che quindi deve ritornare lì aspettando di “coordinare le cose per vedere se è possibile la riammissione a Cuba” (mi dice questo come ripetendo letteralmente le parole ascoltate prima dall’uniformato). Mi chiedo dove la metteranno, se non la riammetteranno.
Continuo a fumare attonito e stancamente nervoso, pensando nell’assurdo da palletta da ping pong, atroce paradosso del non essere accettata da nessuno dei due giocatori (lo so...è quello che mi è venuto in mente in quel momento, è una merda di metafora, l’ammetto). La lascio nel limbo, in quel luogo che giorni prima mi aveva rabbrividito per i controlli a cui ci avevano sottoposti alla migrazione.
«Mucha suerte señora, espero que le vaya bien» (cerco il tono il più accettabile e meno coglione possibile), lei mi sorride e mi lancia uno sguardo che porto ancora raggrumato da qualche parte (senza retoriche).

Ho passato 20 giorni a Cuba nel suo caldo infernal-tropicale. Ho vissuto come turista di sinistra incazzato gradualmente e disordinatamente. Passionalmente. Non vado più in là (per ora, in questa cronaca scritta malissimo alle 4 di notte aspettando il mio volo per il DF) di queste due frasi:
1. (ascoltata 3 volte da 3 persone differenti) «Siamo prigionieri politici in Cuba».
2. «Ci tengono congelati nel tempo».

Eugenio

La Habana, 3 agosto 2007

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