30 novembre 2008

Black Friday 2008



Consumate, gente, consumate!

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17 novembre 2008

Toxic asset – toxic learning

Nello spirito del '68 – senza nostalgie nè tormentoni
di Sergio Bologna

[Dopo un incontro all'Università di Siena, organizzato dal Centro 'Franco Fortini' nella Facoltà di Lettere occupata, il 6 novembre 2008]

State vivendo un'esperienza eccezionale, l'esperienza di una crisi economica che nemmeno i vostri genitori e forse nemmeno i vostri nonni hanno mai conosciuto. Un'esperienza dura, drammatica, dovete cercare di approfittarne, di cavarne insegnamenti che vi consentano di non restarvi schiacciati, travolti. Non avete chi ve ne può parlare con cognizione diretta, i vostri docenti stessi la crisi precedente, quella del 1929, l'hanno studiata sui libri, come si studia la storia della Rivoluzione Francese o della Prima Guerra Mondiale. Ho letto che l'Ufficio di statistica del lavoro degli Stati Uniti prevede che nel 2009 un quarto dei lavoratori americani perderà il posto. Qui da noi tira ancora un'aria da "tutto va ben, madama la marchesa", si parla di recessione, sì, ma con un orizzonte temporale limitato, nel 2010 dovrebbe già andar meglio e la ripresa del prossimo ciclo iniziare. Spero che sia così, ma mi fido poco delle loro prognosi.

Torno da un congresso che si è svolto a Berlino dove c'erano i manager di punta di alcune delle maggior imprese multinazionali, con sedi in tutto il pianeta, gente che vive dentro la globalizzazione, che dovrebbe avere il polso dei mercati, gente che tratta con le grandi banche d'affari e con i governi. Mi aspettavo un po' di chiarezza, qualche prognosi meditata. Balbettii, reticenze, sforzi per minimizzare, qualcuno che fa saltare la conferenza all'ultimo minuto perché richiamato d'urgenza. Pochissimi quelli che hanno parlato chiaro dicendo che la cosa è molto seria, che nessuno sa come andrà a finire e che le conseguenze potrebbero essere catastrofiche.

Ma voi vi occupate – giustamente – dei tagli alla spesa universitaria e tutti vi applaudono, docenti in testa e politici d'opposizione e magari anche qualcuno della maggioranza, siete scesi in piazza autonomamente e tutto sommato tira un'aria di consenso attorno a voi. Non era così nel '68, forse perché allora un po' di violenza c'era, in parte provocata dal comportamento dello stato o delle forze dell'ordine. Ma quel che di buono c'era allora, di eccezionale, era la grande voglia di capire il mondo che avevano gli studenti. In Francia erano partiti dalle tasse universitarie, dal discorso della riforma degli studi ma tutto sommato quel che volevano era molto di più, volevano darsi gli strumenti per cambiare le cose, volevano capire cosa succedeva nei paesi comunisti, o nell'America Latina dove sei mesi prima Che Guevara ci aveva lasciato la pelle, volevano capire a cosa portava la politica di Piano del governo gollista, che cos'era un sindacato operaio, volevano vedere come funzionava una fabbrica e come parlavano gli operai dentro, come funzionava un ospedale e come venivano trattati i malati. È questa grande voglia di sapere, questa sconfinata ambizione di sapere, questa utopica sfida alle capacità della propria conoscenza, che io non vedo tra di voi. O, meglio, che all'esterno non si vede, non si percepisce.

Volete salvare l'Università, così com'è? Spero di no. Com'è oggi non vale una messa, come si dice. Oggi si taglia malamente, d'accordo, ma ieri si è speso peggio e tutti i governi ci hanno messo del suo. L'Università si è allargata come un virus, qualunque cittadina con un sindaco un po' dinamico riusciva ad avere il suo pezzetto d'Università. L'Università come retail. Alla qualità della spesa nessuno ha pensato e ben presto è nato il sospetto che questo meccanismo dilatatorio non fosse – come ci raccontavano – animato dalla nobile intenzione di fare della conoscenza una merce a portata di mano ma dal meschino proposito di creare cattedre con il loro corollario di posti precari e malpagati. Se non temessi d'essere frainteso vi direi: "La difendano loro questa Università, i professori". Voi che c'entrate? Avete mai avuto modo di partecipare sia pure alla lontana alle decisioni che sono state alla base della configurazione dell'Università com'è oggi? Finora, con le vostre tasse avete pagato un servizio sulla cui qualità ed efficienza non esistono parametri di valutazione di cui possiate disporre per chiederne il miglioramento. "Mangia questa minestra o salta da quella finestra". E quasi uno studente su due salta, il tasso di abbandono nell'Università italiana – leggo sul sito www.lavoce.info – è vicino al 50%. E chi inizia gli studi e li abbandona sapete bene che è un soggetto ad alto rischio di disadattamento. Una volta, quando la lingua italiana aveva ancora un tono popolare, si diceva "È uno spostato".

"Gli studenti italiani potrebbero fare causa a metà degli atenei italiani per i servizi che offrono", scrive Roberto Perotti, nel libro L'Università truccata (Einaudi, Torino 2008) – un libro che spero tutti voi abbiate almeno scorso. A leggerne le prime 90 pagine vien da pensare che qualche abbandono può essere stato provocato dallo schifo di fronte a certe situazioni di nepotismo e di corruzione. Un libro che sfata alcuni miti, che combatte alcuni luoghi comuni, come quello delle scarse risorse dedicate in Italia all'Università. Sono scarse se si calcola l'ammontare della spesa diviso per il numero di studenti iscritti ma se invece si assume come parametro non il numero degli iscritti ma di quelli che frequentano veramente a tempo pieno, l'Italia sarebbe ai primi posti nel mondo.

Ma molti di voi potrebbero dirmi che la lotta contro i tagli al budget universitario è solo un veicolo per esprimere a livello di massa e con facile consenso opposizione al governo Berlusconi. Dunque non di bassa cucina si tratterebbe, non di volgari valori economici, ma di alta politica. E come nel '68 gli studenti francesi avevano lottato in definitiva contro il Generale De Gaulle, così quarant'anni dopo gli studenti italiani lotterebbero contro il Cavaliere Berlusconi. (Per inciso debbo dire che mai due si sono assomigliati di meno, il Cavaliere anche coi tacchi rinforzati non sarebbe arrivato alla cintola del Generale, l'uno alto alto, rigido e solenne come una statua di cera, l'altro piuttosto basso e tarchiato, gesticolante a dentiera scoperta). Ma se questa è l'alta politica che vi spinge all'azione mi sentirei in tutta franchezza di dirvi "scegliete un percorso diverso" perché altrimenti rischiate di farvi usare come carne da macello da coloro che condividono con la Destra il pensiero strategico sottostante alle scelte economiche della Seconda Repubblica e dunque sono sostanzialmente corresponsabili della crisi attuale e delle sue conseguenze future. Ciò che minaccia il vostro futuro non è soltanto il governo della signora Gelmini ma un pensiero economico bipartisan che non ha mai saputo né voluto mettere vincoli o imporre regole a una gestione del sistema finanziario dove nulla ormai assomiglia a un mercato ma tutto assomiglia a un gioco d'azzardo con i soldi dei lavoratori e della middle class che vive del proprio lavoro. Un sistema che è stato capace di creare ricchezza fittizia e di distruggere ricchezza reale in misura mai vista nella storia recente. Un sistema la cui follìa era già evidente a tutti almeno dallo scoppio della bolla del 2001, un sistema che premiava i manager che gestivano le imprese non per farle crescere ma per farle dimagrire, aumentandone il valore di borsa a furia di licenziamenti del personale, per rivenderle e intascare fior di premi e plusvalenze. Un sistema che in nome dell'efficienza e della competitività distruggeva soprattutto le competenze, il capitale umano (quando si licenzia per diminuire l'incidenza dei salari si comincia dalle posizioni meglio retribuite, cioè dagli impiegati e tecnici più anziani e con maggiore esperienza). Un sistema che ha riprodotto nella società le abissali differenze di reddito esistenti nelle grandi aziende (manifatturiere o di servizi che siano) e che quindi ha ridotto l'Italia in un paese con i maggiori squilibri tra la parte più ricca e quella meno ricca della popolazione, come ben testimonia l'indagine Bankitalia sulle famiglie italiane. Un sistema che ha consentito "a chi lavorava nella finanza di guadagnare già nel 2000 il 60 per cento in più rispetto agli altri settori" – scrive Esther Duflo, che insegna al MIT di Boston - e aggiunge: "Il problema delle remunerazioni è stato ovviamente affrontato negli Stati Uniti quando si è discusso il piano Paulson, che autorizza il governo americano a spendere 700 miliardi di dollari per acquistare i toxic asset rifiutati dai mercati. Sembra ingiusto far pagare ai contribuenti il disastro creato da coloro che in un'ora guadagnavano 17mila dollari".

E conclude il suo intervento con queste parole: "Osservando gli avvenimenti di questi giorni vien voglia di mandare a casa certi nostri amministratori delegati del settore finanziario. Speriamo almeno che la fine dei guadagni esorbitanti incoraggi i giovani a dedicarsi ad altri settori dove i loro talenti potrebbero essere più utili alla società. La crisi finanziaria potrebbe farci cadere in una recessione grave e prolungata. L'unico vantaggio potrebbe appunto essere quello di un migliore impiego dei nostri giovani più dotati".

Le elezioni americane, portando alla presidenza Barack Obama, sono state una bella reazione a questa insopportabile situazione e fareste bene a riflettere in seminari di autoformazione su quel che è accaduto negli Stati Uniti. Tutta la stampa e l'opinione corrente è unanime nel dire: "È accaduto un fatto nuovo perché è stato eletto un nero, un afroamericano". Soliti giudizi superficiali, da semianalfabeti della politica. Queste elezioni sono state importanti perché dopo circa 30 anni – dai tempi di Reagan – la tematica di classe è stata al centro del dibattito. Non del proletariato, ma della middle class (di cui fanno parte anche strati operai di grande fabbrica), cioè di quel ceto medio che per più di un secolo ha fatto da collante alla credibilità dell'american dream e che da alcuni anni – proprio in conseguenza dei processi scatenati da una forma di capitalismo senza regole e senza etica, un capitalismo di avventurieri e di giocatori d'azzardo – ha subìto un processo d'impoverimento che non trova paragoni se non nella grande crisi del 1929. Contro questa tendenza alla disgregazione sociale e all'impoverimento della middle class hanno cominciato a battersi da alcuni anni molte iniziative civiche (tra le tante quella messa in piedi dalla nota giornalista e scrittrice Barbara Ehrenreich con il sito www.unitedprofessionals.org). Barack Obama ha colto questo disagio, questo malessere, e ne ha fatto il suo tema dominante. Non ha parlato, come ormai ci hanno abituato questi bolsi, stucchevoli, "politicamente corretti" leader della cosiddetta Sinistra, di "quote rosa", di gay, non ha parlato di bianchi e di neri, di aiuole pulite e di biciclette, è andato al sodo, ha puntato il dito sui disastri del neoliberalismo selvaggio, ha fatto per la prima volta dopo 30 anni un discorso di classe. E ha vinto riuscendo a portare alle urne anche i giovani, che al 70% hanno votato per lui. Ha colto la grande tendenza dell'epoca, quella che da tempo cerco di chiarire a me stesso ed agli altri nei miei scritti sul lavoro (l'ultimo mio libro si intitolava "Ceti medi senza futuro?" e non se l'è filato nessuno).

Sono convinto che la lotta che state conducendo potrebbe essere utile a voi stessi e agli altri se ne approfittaste per crearvi un vostro sistema di pensiero, per procurarvi strumenti critici in grado di capire com'è accaduto quel che è accaduto e quali sono stati i perversi meccanismi che in questi ultimi vent'anni hanno dominato l'economia, senza che venissero contestati né da Destra né da Sinistra – a parte qualche voce isolata di studioso. "Un sistema che si autoregola, per questo esistono le Authorities" - recitava la litania liberista in questi anni. Balle! Basterà dire che lo scandalo Enron, che spesso viene portato ad esempio della severità con cui il sistema USA punisce le aziende dal comportamento irregolare, non sarebbe mai scoppiato se una donna che era membro del Consiglio di Amministrazione non avesse deciso di "cantare", di svelare gli imbrogli. Una "gola profonda" è stata all'origine di tutto, non certo l'FBI! Negli anni della forsennata privatizzazione (1992/93) con cui l'Italia ha messo nelle mani di nuovi raider della finanza immensi patrimoni pubblici (leggetevi a questo proposito il libro di Giorgio Ragazzi I signori delle autostrade, Il Mulino, Bologna 2008 – ma lo stesso se non peggio potrebbe dirsi di Telecom), suggellando il suo "golpe bianco" con l'accordo sindacale del luglio 1993 grazie al quale oggi abbiamo i salari d'ingresso più bassi d'Europa, non erano certo personaggi della nuova Destra a menare la danza ma uomini come Romano Prodi ed altri ex manager pubblici. A beneficiarne sono stati i Tronchetti Provera, i Benetton, i Colaninno, i Gavio – li ritroviamo tutti guarda caso oggi nella vicenda Alitalia. L'Università di Siena ha la reputazione di essere un centro di eccellenza nelle discipline economiche e bancarie. Vi hanno mai parlato di queste storie e come ve ne hanno parlato? E della crisi odierna che vi dicono? Che è una solita crisi ciclica, forse un po' più acuta ma in sostanza è tutto normale, razionale, un po' di eccessi magari ci sono stati ma il sistema è saldo, è sano. Questo vi dicono? Non vi dicono che questo sistema, questi meccanismi, creano, stabilizzano, consolidano le disuguaglianze sociali, le ingiustizie sociali? Non vi dicono che questo sistema umilia, calpesta le competenze, il capitale umano? Che è l'esatto contrario della knowledge economy di cui si riempiono la bocca, l'esatto contrario di un sistema meritocratico? E se non ve le dicono queste cose, se continuano a raccontarvi le solite favole di Cappuccetto Rosso, se continuano a farvi flebo d'ideologia liberista – allora mandateli loro a protestare nelle piazze per i tagli all'Università.

Questa vostra lotta ha un senso se è un passo in avanti, se diventa atto costitutivo di un processo di autoformazione.

Quel che è avvenuto in questi mesi non è mai accaduto nell'ultimo secolo e cioè che istituzioni e persone le quali hanno prodotto danni incalcolabili (pensate soltanto ai fondi pensione che si sono volatilizzati con questa crisi!) invece di essere punite ed i loro beni sequestrati, sono state salvate senza che lo stato, che ha fornito i mezzi per salvarle, assumesse il controllo di queste istituzioni. Un regalo di enormi proporzioni agli avventurieri, ai ladri, una terribile lezione morale per le nuove generazioni. (Non che la gestione pubblica sarebbe stata migliore, in Germania le peggiori nefandezze le hanno commesse alcune banche pubbliche come la Landesbank della Baviera).

C'è stato qualcuno che vi ha chiamato in piazza per opporvi a questa vergogna? Ma ha ragione in un certo senso anche chi dice: "Che cosa si poteva fare d'altro?" Nessuno infatti ha saputo o voluto in questi anni immaginare una società diversa che non fosse un'utopia. Alternative globali nessuna, solo strategie di sopravvivenza. Ed è sostanzialmente questo che vi propongo anch'io: costruendo percorsi comuni di autoformazione costruite anche delle reti, vi liberate pian piano dalla costrizione all'isolamento, dall'individualismo e soprattutto dall'illusione che "una buona preparazione universitaria", corredata magari da qualche corso o master post laurea, possa mettervi al riparo dalla crisi, dalla sottoccupazione o dall'umiliazione di vedervi trattati dal datore di lavoro come un puro costo.

In un paese dove i salari d'ingresso, quelli dei primi assunti, sono i più bassi d'Europa, la preparazione conta assai poco. I precari, i lavoratori a tempo determinato, hanno delle remunerazione parametrate su quelle dei primi assunti. Dunque anche loro sono pagati peggio che altrove. E le vostre generazioni rischiano di andare avanti con lavoretti precari fino ai 40 anni. Pertanto è pura demagogia quella di coloro che parlano di democratizzazione degli accessi, che difendono di questa università il fatto che possono iscriversi anche i figli di famiglie povere. Il problema non è la massificazione della popolazione studentesca ma il fatto che il capitale umano di un laureato non vale una cicca sul mercato del lavoro! O i giovani riacquistano un minimo di forza contrattuale sul mercato del lavoro oppure l'università sarà solo un frigorifero di disoccupati, un osceno apparato di puro controllo sociale. Pesanti le responsabilità sindacali per questa situazione. Miope e meschina la strategia del padronato italiano da vent'anni a questa parte. Squallido il mondo dell'informazione che su questa realtà tace o si sofferma di sfuggita. Quarant'anni fa gli studenti sono andati nelle fabbriche, negli uffici, nei laboratori di ricerca, negli ospedali, nelle aule dei tribunali, nelle redazioni dei giornali a vedere come funziona il mondo reale, non si sono accontentati di lasciarselo raccontare, non hanno fatto visite guidate. Ficcatevi nei processi reali ovunque se ne presenti l'occasione! Usate la grande risorsa del web per procurarvi le notizie alla fonte, per attingere a visioni critiche del mondo, anche se questo esercizio talvolta vi costringe a rovistare nella spazzatura di Internet. Gli Stati occidentali che hanno smantellato i sistemi di welfare si sono ridotti a ingoiare toxic asset, voi cercate di non inghiottire toxic learning! Avrete già fatto un passo in avanti per vivere meglio.

Organizzate incontri con quelli che hanno alcuni anni più di voi, fatevi raccontare come vengono accolti dal mondo del lavoro, quando escono dall'Università. Frequentate i blog dove la gente racconta le proprie esperienze di lavoro, chiedetevi seriamente se val la pena di studiare in un'Università com'è fatta oggi oppure se non sia meglio costruire processi di autoformazione e di controinformazione. Scatenate la fantasia nel creare un'estetica della protesta, efficace, aggressiva, non ripetitiva, le forme della comunicazione sono state uno degli strumenti vincenti delle lotte del proletariato nel Novecento, ripercorrete le spettacolari performances degli occasionali dello spettacolo francesi che hanno tenuto duro per un paio d'anni, buttate nella spazzatura vecchi slogan, scanditi stancamente, parole d'ordine che sono ormai diventate banalità che fanno venire il latte alle ginocchia. Ai vostri colleghi che affollano le facoltà di comunicazione non viene nulla in testa?

Ho insegnato all'Università per quasi vent'anni, quando mi hanno cacciato non ho fatto nulla per restare, per difendere la mia cattedra, gli ultimi due anni d'insegnamento li ho passati all'Università di Brema, ormai un quarto di secolo fa. Ci sono tornato in questi giorni perché un mio collega di allora prendeva congedo definitivo dall'insegnamento e andava in pensione un anno prima del termine previsto dalla legge in Germania. Aveva rinunciato, com'è d'uso, alla lectio magistralis. E nelle poche parole di congedo davanti a un centinaio di amici e colleghi ha voluto dire perché se ne andava in anticipo. "Ho fatto il Preside di Facoltà in questi ultimi cinque anni, mi ci sono dedicato completamente, pensando di fare il mio dovere, non ho avuto tempo né di studiare né di tenermi aggiornato, non me la sento di tornare a insegnare per dire le stesse cose di cinque anni fa, non me la sento per onestà verso gli studenti". Quanti docenti italiani farebbero lo stesso? Questi fanno i Ministri e poi tornano tranquillamente a insegnare, specialmente se vengono da governi di centro-sinistra. Malgrado l'Università italiana sia un luogo da cui sono contento di essermene andato, sia un luogo che umilia le intelligenze invece di stimolarle, credo che siano ancora tanti i docenti e molti i ricercatori con i quali voi potete stabilire un patto di formazione negoziata. Le dinamiche di coalizione che si creano durante un processo rivendicativo, durante una protesta che chiede la restituzione di qualcosa – come la maggior parte delle proteste che nascono da situazioni difensive e non da un'iniziativa preventiva – sono molto fragili e rischiano d'impoverirsi e irrigidirsi, troppo focalizzate sull'obbiettivo. Pertanto occorre pensare ad attivare processi di continuità, svincolati dall'obbiettivo. Francamente, se la 133 viene ritirata la vostra condizione di fondo non cambia. È questa condizione che dovete cambiare.

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13 novembre 2008

Lettera dall'Onda

(dal sito: http://anomalonda.wordpress.com/)

L’Onda Anomala non si rappresenta. Informazione dal basso verso il basso.

Dall’Assemblea No-Gelmini di Bologna nasce l’idea di inondare i cittadini italiani di nuova informazione, fatta da noi e recapitata loro direttamente e senza spese.

Propugniamo una “strategia del contagio”, di cui ognuno deve farsi sostenitore e praticante. I governanti spediscono “lettere alle famiglie italiane” a spese dello Stato; noi invece porteremo alle famiglie lo stesso numero di lettere a nostre spese (praticamente gratis) consegnandole direttamente al destinatario!

Anche chi non ha il tempo necessario per dedicarsi pienamente alla causa, può rendersi protagonista con pochi, semplici gesti, dando così il proprio contributo diffondendo la Lettera dell’Onda.

Proponiamo ad ciascuno di voi di stampare più copie della Lettera (linkata qua sotto) ed imbucarle a vicini di casa e conoscenti. Imbustate il documento, scrivete sulle buste come destinatario “l’intera popolazione” e come mittente “l’Onda Anomala”. Se 1.000 persone avranno 20 buste, porteremo la lettera a 20.000 famiglie, se 50.000 persone avranno le buste, a 1 MILIONE di famiglie. INONDIAMO L’ITALIA CON I NOSTRI CONTENUTI!

Cominciamo subito dalla grande manifestazione del 14 a Roma!

Clicca qui per scaricare la lettera in pdf.


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12 novembre 2008

Ricerca e capelli

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04 novembre 2008

In nome del popolo italiano

[Vi giro l'editoriale di Gian Maria Tosatti dall'ultimo numero di Differenza, settimanale online di cultura. Paolo]

«Pay attention! Movimento Irrappresentabile». È questa la frase che pare aver suggellato la guerra d’indipendenza delle nuove generazioni contro le vecchie. E non è una questione anagrafica, quanto di pensiero. Accanto agli studenti questa volta ci sono i loro padri. Accanto ai loro avversari, i politici, ci sono i movimenti politici giovanili. La guerra non è dunque fra giovani e vecchi, ma fra chi pensa nuovo e chi pensa a se stesso, ossia a mantenere lo status quo.
E per una volta Famiglia Cristiana parla davvero a nome di tutti sconfessando questa finanziaria e i relativi decreti (leggi Gelmini e affini) affermando con un candore da chierichetti che il re è nudo e che non è credibile un governo che taglia i fondi per la ricerca, ma trova miliardi per salvare le banche, per mantenere Alitalia e lasciare intatti i privilegi dei parlamentari. Non è credibile un governo che per operazioni di suo interesse tratta fino allo stremo delle forze e che sulla scuola lancia dictat per decreto e li approva a botte di fiducia parlamentare dichiarando inutile il confronto con le parti sociali.

Gli studenti allora vanno in piazza. Ognuno a modo suo. In maniera talvolta confusa, ma sono i primi passi. Non è ancora tutto chiaro, non è ancora abbastanza chiaro che non bisogna rispondere alla violenza, ma qualcosa lo è in modo nettissimo: niente politici, niente strumentalizzazioni, questo movimento nasce per difendere i diritti di tutti, degli irrappresentati. Ed è appunto questo a costituire la spaccatura vera: la politica dei partiti, tutta, con buona pace anche di Veltroni che in questi giorni si sbraccia come può, non è più “deputata” a rappresentare gli interessi del paese. Di quel paese nuovo che vede l’Europa allontanarsi e che ha deciso di rompere l’immobilità e iniziare la marcia per raggiungerla.

È una marcia di cortei, una marcia di pensieri e di parole. È una marcia “contro l’Italia”. Ed è così che dev’essere, giacché oggi un cambiamento vero in questa periferia dell’impero non può venire che dal basso. Dal popolo sovrano. Dalle molte individualità che confluiscono ed iniziano a lavorare per realizzare una Controriforma.

Se tale intento vuole realizzarsi davvero, allora gli studenti dovranno iniziare a rilanciare, a pensare sempre più in alto, a parlare sempre di più, a dichiarare qual è il paese in cui vogliono vivere. Gli studenti di architettura progettino, gli studenti di legge propongano, quelli di lettere scrivano sui giornali e su internet. Creino una energia che vada ad unirsi a quella parte consapevole di italiani che da tempo sono mobilitati per costruire un’alternativa ad un futuro già scritto e reso ineluttabile da altri.

È una nuova coscienza popolare l’occasione che si affaccia in questa crisi. Un’occasione che non dev’essere perduta. Un’occasione per cambiare gli italiani.

Ma appunto per farlo è necessario evitare ogni strumentalizzazione, evitare di rientrare nei ranghi indecenti delle vecchie categorie, di un bipolarismo fasullo o peggio ancora di una pilotata rissa fascio-comunista. Perché ciò non avvenga la questione è: quanto siete disposti a marciare? Perché quelli che marciano assieme agli studenti (i potentati universitari, ma soprattutto i politici), non smetteranno di marciare, perché marciare è il loro mestiere. Quando gli studenti si fermeranno, perché saranno stanchi o perché penseranno ad altro, gli altri raccoglieranno i frutti della loro fatica abbandonati nelle piazze vuote. È andata sempre così. Senza ipocrisie, è palese che l’università prima della Gelmini fosse già in rovina, perché, quando gli studenti hanno fermato le loro marce degli anni passati, i politici e i baroni, una volta rimasti soli nella gestione ne hanno sempre fatto quello che volevano. Ma oggi la questione va ribaltata. È vero che marciare è il lavoro dei politici, ma i giovani hanno gambe forti. Possono e devono marciare più a lungo degli altri. Devono stancare tutti. Devono sfinirli e farli fermare. Allora saranno gli studenti a raccogliere i frutti e ad andare oltre, oltre l’università, oltre il paese, incontro all’Europa. Ma, per intanto, marciare. Ad oltranza, pretendendo dall’università che funzioni dal di fuori (cioè a livello legislativo), ma che funzioni anche dal di dentro (opponendosi ai concorsi truccati di questi giorni con la stessa decisione e con lo stesso diritto con cui ci si oppone alla Gelmini). Bisogna muoversi contro l’Italia, non contro un governo che ne è solo il fantasma dell’anima. Non basta fermarsi, fermare tutto per opporsi. Bisogna fare, strafare, costruire cose che gli altri non possano distruggere. Bisogna muoversi contromano e trascinare con sé tutto il resto se vogliamo che il destino torni nelle nostre mani.



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02 novembre 2008

Le poesie di Mario Calcagno (un'anticipazione...)

L'altroieri mi sono imbattuto nel libro di poesie Io sono uno spostato (ed. Sensibili alle foglie) di Mario Calcagno.

Sto scrivendo una recensione ma nel frattempo vi lascio tre poesie da leggere, che introduco brevemente.

Mario Calcagno è un 51enne piemontese, da molti anni in cura psichiatrica. Ha una conoscenza ossessiva dell'italiano, ogni parola gli è amica o nemica, e più che un poeta è un artista della parola.

Davide


Psichiatria

Le finestre alte e strette
luci fredde e molto inquiete,
non era casa mia:
ero entrato in psichiatria

Stillicidio delle flebo
intontimento da Roipnol,
non era casa mia
ero ancora in psichiatria

Il tremar delle mie membra
l'affannarsi del respiro,
non era casa mia,
ero sempre in psichiatria

L'impazzire della mente
cinghie strette intorno ai polsi,
non era casa mia
ero proprio in PSICHIATRIA!

*************

Lo psichiatra

Lo psichiatra
spesse volte con "piedi di pietra"
s'inoltra sopra fragili
cristalli di vetro
barbagli nelle tenebre
dove è sempre ombra
e stupito sembra
che il cristallo si rompa
e, per il dolore, latri.

*************

Uccidetemi (da Tito Schipa junior)

... e se deliro, e se deliro!
UCCIDETEMI o critici, o psichici
o menteanalitici, o medici, o clinici, cerebrologici,
o pratici, grandimunifici, crani orologici, sensoanalgesici,
nei vostri camici, comici, cinici, venite lucidi,
luridi reduci, sotto: UCCIDETEMI!
Perché il pensiero era questo qua:
dove andate amici stasera,
parlerete di che, riderete di che,
è davvero possibile, è lecito che...
io non viva, io non sappia la vostra avventura,
che io non sia da voi
e con voi
ed in voi...
e voi in me.

... e se deliro, e se deliro!
UCCIDETEMI o sadici, o unici
o voi sì saccenti, teorici chierici,
di logaritmici trip sociolopgici,
che siete in tutto quattordici o quindici
ma create indici immensi, astronomici
di indecifrabili sudici vortici
che paranoici pulcini colpevoli
rendono chi rischia...
L'UTOPIA, ma...

Lontano da questa ammucchiata di spettri parlanti
ciarlieri, eleganti
ma non esistenti, lontano dai falsi profeti
lontano dai finti poeti
le cui sensazioni sono zero
le cui emozioni sono zero
il cui colore è nero
e sempre solo nero,
sotto i freddi lustrini.

Mario Calcagno


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Lettera a una studentessa

Ripubblichiamo qui la "Lettera a una studentessa", a firma di Nichi Vendola, uscita sulla prima pagina di Liberazione giovedì 30 ottobre. Come si evince dal titolo, Vendola, in linea con Bertinotti e altri prima di lui, rivendica la centralità del pensiero di don Milani a 40 anni dal '68, pensando (probabilmente, a ragione...) di trovarsi davanti a quella che non è una Riforma, ma che vuole e può essere la fine, "per decreto", di un'era.

Pare che, pur non sopprimendo certo paternalismo d'antan, lo sguardo di Vendola sia abbastanza acuto da poter analizzare bene la realtà dell'Onda di queste settimane, ma che al tempo stesso sia il frutto di un discorso ambivalente: si mette il dito nella piaga - sanguinante - della "irrapresentabilità" del movimento, descrivendo, e in realtà proponendo, una parte/partito.

Il merito di Vendola, allora, sta soltanto nel non entrare nel merito di Piazza Navona.
Che non è, del resto, cosa che ci interessi, tanto ne avevamo letto già prima sui giornali.


Non hai un solo nome, sei un soggetto plurimo, sei una moltitudine, sei maschile e femminile. Eppure voglio scriverti pensandoti come un singolo, anzi come una singola. Sì, come una studentessa: e non certo per pelosa galanteria, ma perché la “cosa” che incarni è così poco militarizzata e gerarchizzata che mi offre una declinazione al “femminile” dei pensieri che mi ispiri. E dunque, cara studentessa anti-Gelmini: ti spio, ti annuso, provo a decifrare il tuo lessico, cerco di indovinare i tuoi gusti e le tue passioni. Hai la faccia anche della mia piccola Ida, che è andata al suo battesimo con la piazza con la serietà con cui ci si presenta ad un esame scolastico. Il suo primo corteo. Mi sono imposto, per una questione di igiene politica, di non fare paragoni (il 68, il 77, l’85, la pantera): quei paragoni che dicono molto della nostra vecchiezza e poco della giovinezza di chi compone le forme nuove della ribellione al potere. Ho cercato di non sovrapporre la mia epopea, la mia biografia, la mia ideologia, al corpo sociale che tu rappresenti, al processo culturale che tu costruisci, alla radicale contraddizione che tu fai esplodere con la fantasia e il sarcasmo dei tuoi codici comunicativi e della tua contro-informazione.

Tu sei, seppure ancora appesa a più fili di adolescenza, una domanda matura e irriducibile di democrazia: e hai capito che per non essere ridotta alla volgarità del tele-voto e della pubblicità, la democrazia non può che vivere e rigenerarsi nel rapporto con le culture, nella socializzazione dei saperi critici, nella ri-tessitura quotidiana delle reti di incivilimento e dei nodi di convivialità. La scuola è il fondamento di ogni democrazia. Lo è quando insegna ai bimbi delle elementari l’elementare rispetto per ogni essere umano: precetto che forse evaporerebbe in qualche istituto scolastico di rito padano. Lo è quando riannoda i fazzoletti della memoria storica e tramanda narrazioni, saperi e valori. Lo è anche quando la scuola fuoriesce da sé, straripa nel conflitto politico-sociale, invade la piazza, trasferisce la cattedra sul marciapiede, proietta le proprie attitudini pedagogiche sui territori, rompe la separatezza dei suoi microcosmi e investe con domande di senso l’intera società. Dimmi che scuola hai e ti dirò che società sei. C’è chi immagina, anzi c’è chi vuole apparati della formazione che preparino alla precarietà esistenziale e produttiva: e dunque servono scuole e università dequalificate. Le classi dirigenti (forse è più appropriato dire “classi dominanti”) si riproducono invece per partenogenesi, ben protette in quei laboratori della clonazione sociale che sono scuole e università private.

Cara studentessa, queste cose tu le hai scoperte con semplicità, le hai spiegate alla tua famiglia, le hai narrate con compostezza nelle assemblee, hai rivendicato la tua centralità (la centralità della pubblica istruzione) contro chi “cogliendo l’attimo” dell’egemonia berlusconiana voleva e vuole di colpo annullare un secolo di battaglia delle idee, di esperienze gigantesche di riorganizzazione sociale e scolastica: hai ben compreso che la Gelmini non è folclore, ma è il punto più insidioso dell’offensiva della destra, è una sorta di don Lorenzo Milani rovesciato, è l’apologia di un “piccolo mondo antico” abitato da voti in condotta e grembiulini monocromatici dietro la cui scenografia ottocentesca si muove la modernità barbarica del mercato: che non ha bisogno di individui colti, e liberi perché padroni delle conoscenze, ma ha bisogno di piccole libertà in forma di merce per individui ammaestrati alla competizione e diseducati alla cooperazione.

Carissima studentessa, la lezione più importante che ho appreso studiando le vicende del secolo in cui sono nato è che l’obbedienza non è una virtù assoluta. Se è ossequio ad un potere cieco, ad un codice violento, ad un paradigma di morte, allora bisogna ribellarsi, allora bisogna scegliere le virtù civiche della disobbedienza. Non si può obbedire alla politica del cinismo affaristico e classista.

Al contrario, dobbiamo cercare la politica che ci aiuta ad essere la forza ostetrica che fa nascere il futuro. Volevo ringraziarti perché, spiandoti e annusandoti, non ho pensato: questa qui è dalla mia parte. Ho pensato che la mia parte (stavo per dire il mio partito) è nello spazio riempito dai tuoi gesti, dalle tue parole, dalla forza inaudita di tutte le tue libertà.


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