28 marzo 2007

Temo che si tratti di un altro pezzo sulla critica letteraria, di Christian Raimo

Da Nazione indiana

Il discorso sulla malasorte, la decadenza, se non l’agonia, la putrefazione della critica letteraria è diventato un genere a sé. I critici italiani (gli intellettuali, i teorici, i professori universitari…) lo praticano sempre più spesso, e – va riconosciuto – con grande maestria. Le grida di allarmi, i tentativi di risvegliare il cadavere si susseguono. Carla Benedetti qualche anno fa parlava di tradimento dei critici; Mario Lavagetto di eutanasia della critica; Gabriele Pedullà un paio di mesi fa sulle pagine di Alias inaugurava – con un articolo intitolato “Se la critica muore” – quello che è stato un dibattito che è proseguito sul manifesto, si è seminato sulle terze pagine degli altri giornali, sui siti letterari in rete, tra i convegni di coloro che con lo studio della letteratura ci campano; ah, e da ultimo è uscito in questi giorni da Meltemi L’altra critica di Raul Mordenti. Così un lettore forte, un individuo critico con l’industria culturale del proprio tempo e del proprio paese, non può fingere di non sapere quale sia il pessimo stato di salute della critica letteraria oggi in Italia. Dove per “critica letteraria” si deve intendere un’importante sineddoche della militanza culturale, dell’impegno politico che ognuno deve mettere nell’agire lo spazio pubblico.

Diagnosticato il male però, la questione senza soluzioni di contrasto incisive si ripropone identica, o peggiore. La critica muore, si può vegliarla. Amen. Nessuno però dei critici che abbiamo sopra citato è un apocalittico, anzi. Da una parte: ognuno cerca di analizzare il fenomeno a partire da alcune trasformazioni strutturali del campo della cultura in Italia. Il berlusconismo in primis, si è concordi, il berlusconismo in tutte le sue forme (comprese le versioni più suadenti della sinistra) ha finito col devastare – antropologicamente – una nazioncina già debilitata da decenni di abusi di potere, fascismi striscianti, ideologie del consumo invasive. Mordenti si rifà a Steiner e ne conia quasi una formula: dove c’era la critica oggi c’è la pubblicità. Ma la stessa dinamica di malpensiero la denuncia chi addita D’Orrico, piazzista di libri sul Corriere Magazine, o chi – come Pedullà – fa notare che l’atteggiamento di stizza rispetto a un contradditorio è lo stesso per Berlusconi, quando lascia sdegnato lo studio dell’Annunziata, e per Baricco, quando si lamenta in prima pagina su Repubblica del malanimo dei recensori nei suoi confronti.

E appunto, dall’altra parte, però: ognuno non si lascia affascinare dal proprio cahiér de doleance, ma abbozza soluzioni. Bibliodiversità, creazione di aree di autonomia dell’esercizio della critica fuori dalle macchine editoriali, boicottaggio, riqualificazione di quegli agenti culturali ormai resi cadaveri anche loro: la scuola, l’università, l’editoria indipendente.

Non ci sarebbe nulla da aggiungere. Se non che: l’impressione che rimane è quella di un’ultima battaglia tipo Termopili. Piccoli atti di resistenza contro un’avanzata micidiale e incontrastabile. Ma è veramente così?

Facciamo un passo altrove. Nel 1901 Bertrand Russell formulava uno dei paradossi più celebri della storia del pensiero. Il paradosso del barbiere. Un villaggio ha tra i suoi abitanti uno ed un solo barbiere, uomo ben sbarbato. Sull’insegna del suo negozio è scritto Il barbiere rade tutti – e unicamente – coloro che non si radono da soli. La domanda a questo punto è: chi rade il barbiere? La risposta che uno è naturalmente portato a dare è “il barbiere si rade da solo”. Ma in questo modo viola una premessa: il barbiere rasandosi non raderebbe unicamente coloro che non si radono da soli. Allora viene spontaneo il pensare che il barbiere sarà raso da qualcun altro, ma ancora una volta si viola una premessa: che il barbiere rade tutti coloro che non si radono da soli (per dirla in altre parole, il barbiere se si rade da solo non dovrebbe radersi, se non si rade da solo dovrebbe radersi). Eppure il barbiere è ben sbarbato… Il paradosso all’inizio del Novecento ebbe un effetto domino su tutta la disciplina della logica formale. E Russell lo riscrisse per la teoria degli insiemi così: un insieme può essere o meno elemento di se stesso?

Ora, questa è la formula che mi viene in mente da applicare quando mi trovo di fronte a un discorso sulle difficoltà della critica pronunciato da un critico. Può un critico, con gli strumenti linguistici, concettuali che si è formato nel pieno del Novecento, nel momento in cui l’esistenza, il valore della critica non faceva problema, riuscire a sbrogliare questo paradosso mortale in cui lui stesso è avvinto?

Ma facciamo un passo indietro, perché a questo deficit se ne aggiunge un altro, collegato. Di fronte a un incontestabile declino del ruolo dell’intellettuale, di fronte al suo deprimente discredito, il nemico che si indica, la causa del male è il dominio della comunicazione televisiva e del marketing. Questa calamità ogni volta è invocata come se si trattasse di un mostro proteiforme e incarpibile. Perché? Perché i critici della cultura non studiano forme e modi di indagine dell’universo televisivo e di quello pubblicitario in modo da non lanciarsi semplicemente in invettive liquidatorie sulla decadenza intellettuale dell’italiano medio? Perché non è stato scritto in Italia un libro come quello di Steven Johnson, Tutto quello che ti fa male ti fa bene (Mondadori, 2006), che segnala l’evoluzione incredibile che le forme della narrazione hanno avuto negli ultimi trent’anni grazie ai telefilm e ai videogiochi, e la conseguente trasformazione delle competenze cognitive delle giovani generazioni? La televisione è veramente questa creatura orribile che plasma in modo ottundente le menti, rendendole semplici recettrici di messaggi promozionali? Capito il punto? È veramente tutto perduto o sta lì lì per esalare l’ultimo respiro?

Cosa deve fare allora un critico? Non avere paura. Non temere lo strapotere del mercato. Rinnovare il proprio bagaglio novecentesco composto di “avanguardia”, “tradizione”, “sperimentazione linguistica”, etc… Staccarsi dalla bombola dell’ossigeno del proprio rinoscimento accademico (ma qualcuno di voi legge mai le riviste dei contemporaneisti delle università italiane? Sembrano che vivano isolati dal nostro pianeta surriscaldato, dentro in una specie di bolla, tra le pagine di Fahrenheit 451). Rendersi conto di essere impigliato nel modo più stretto al paradosso di Russell e agire come Alessandro di fronte al nodo di Gordio. Spezzare. Liberarsi. La critica sta morendo per una infame gestione delle risorse culturali in Italia? Invece di lasciarsi andare a geremiadi, denunciare. Ma prima di tutto, se stessi. Esporsi. Dichiarare i propri piccoli eccessi di potere. Non cercare una scialuppa, ma lottare modello Achab contro la balena del disastro universitario (orrenda metafora, ok). Mostrare quei compromessi che in ogni ambiente dove si esercita una professione culturale si è costretti ad accettare, ma soprattutto a riproporre: il berlusconismo che è in noi. Ammettere il proprio ritardo di comprensione, ribilanciare la propria esibizione di disinteresse rispetto a quegli agenti formativi come la fiction televisiva, il mondo della pubblicità, i best-seller, la televisione generalista-e-non che hanno trovato, a scapito certo anche dei dibattiti culturali e dell’elitarismo delle terze pagine, la propria legittimazione. Rendersi credibili. Cercare famelicamente la vivacità di nuove discipline: il “decennio d’oro” – come lo chiama Mordenti -, quello tra il 1962 e il 1972 fu un periodo d’oro dal punto di vista intellettuale in Italia perché finalmente si creavano prospettive multidisciplinari, il discorso filosofico si intrecciava con quello semiotico, con la psicanalisi, con l’antropologia. E oggi: quali sono i campi di studio che ci servono per tracciare nuovi paradigmi, nuovi dispositivi interpretativi?

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26 marzo 2007

Certa sinistra

L'altro giorno trovo un amico che si sta guardando un video su YouTube. Si tratta di un video di un famoso attore italiano dal noto orientamento politico. Dopo poche battute mi rendo conto subito di averle già sentite quelle cose; ma non erano proprio le stesse, quelle che ricordavo io erano... erano meglio. E mi viene subito in mente un altro personaggio. In effetti non si tratta di un plagio; forse di un omaggio, o piuttosto un remake, meglio, un remix, boh? Fatto sta che il primo è una banalizzazione populista che non fa neanche ridere ed una finta autoanalisi assolutoria tanto tipica di certa sinistra contemporanea. Il secondo, comunque la si pensi, era un emozionante gioiello del genere.
Vi riporto il video che si stava guardando il mio amico e poi, sotto, il video dell'artista che mi è venuto subito, ovvio, in mente. Non so, magari segnalo una cosa arcinota; in questo caso scusate la ripetizione, ma credo possa comunque essere interessante riascoltare un bel pezzo di teatro-canzone italiano:





Paolo

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La fede è contronatura più dei gay, di Massimiliano Parente

Da Il primo amore

C'era una volta l'uomo. Come le orme in Tanzania, scoperte nel 1978 da Mary Leakey. Non erano proprio uomini ma ominidi, e quelle impronte fossilizzate nella cenere vulcanica sono state impresse oltre tre milioni e mezzo di anni prima della Bibbia e di quando la Bibbia fa risalire la genesi del mondo.

Quando furono rinvenuti i primi fossili, ancora all'epoca di Darwin, la Chiesa li definiva "creature del demonio", perché nulla poteva esserci prima di circa tremila anni dalla nascita di Cristo, perché avevano capito che il castello di carte sacre sarebbe crollato e non erano più tempi in cui si potessero erigere roghi e far sparire le prove.

Noi non "deriviamo dalla scimmia", come scrive ancora oggi "Il Domenicale" secondo una vulgata darwiniana da terza media e come se fossimo in pieno Ottocento per dire che "non è vero" e non sapendo nulla da come scrivono, né di evoluzionismo né di genetica o biologia molecolare: casomai discendiamo tutti da un procariote formato da plasmidi e ribosomi, e proveniamo da un primordiale, terribile e immemoriale mangia mangia.

Ora il papa, questo omino senza peli ma recente, ultimo anello di una lotta della vita su questo pianeta che dura da oltre tre miliardi e mezzo di anni, questo omino vestito di bianco e con le scarpette di Prada, parla di natura e contro natura, anziché parlare di Dio o contro Dio. Di Dio può parlare, perché è un'invenzione loro, ci credono loro, ci crede chi ci crede, va benissimo. Di natura temo no, se non di una natura altrettanto artefatta e favolistica, fuori dalla scienza, fuori dall'antropologia, fuori dall'etologia, fuori dai fatti.

In natura, nei tempi geologici, la Bibbia è contemporanea di Faletti. In natura vige una selvaggia legge di sopravvivenza, dove è naturale la predominanza del più forte, il cannibalismo, l'uccisione del proprio simile, l'egoismo iscritto nei propri geni, nei codici del dna di cui siamo intessuti sia noi che gli altri animali che i vegetali. Degli atomi di cui siamo composti insieme alle cose e alle stelle. In natura non esistono diritti né doveri, esiste la selezione naturale. Non esiste neppure la spietatezza perché non esiste il concetto di pietà. Ciò che il papa chiama natura è cultura.

Basta andare allo zoo e osservare due bonobo femmine che scopano sfregandosi i genitali l'un l'altra senza che nessuno gli dica cosa è natura e cosa non lo è per capire che forse sono più avanti le scimmie antropomorfe nella storia dell'evoluzione, perché almeno loro non hanno l'omino senza peli che parla di natura o Antonio Socci che gli dice di mettersi il cilicio anziché godere e fottersene. Si deve parlare di cultura e scontro di civiltà, modernità e ragione contro quella cosa chiamata "fede", che proprio perché inizia dove finisce la ragione dovrebbe almeno tacere contro la ragione e evitare la logica. Vittorio Sgarbi e altri, per fare i colti, citano Dante per difendere i valori della Chiesa, ma cosa c'entra? Per Dante il sole girava ancora intorno alla terra e le stelle erano attaccate alla volta celeste e non c'era il doppio cieco, perché Sgarbi non si cura con la medicina dei tempi di Sant'Agostino?

Ma vorrei scendere ulteriormente sul piano di ragionamento pontificio, seguirlo fino in fondo. Ho già scritto su questo giornale che se un cattolico si batte contro le unioni civili deve battersi anche contro il matrimonio civile, che per la chiesa è un pacs, non riconosciuto, non ammesso, un peccato. Per la Chiesa il matrimonio civile è un Dico. E indire una nuova crociata anche, va da sé, contro il divorzio, che per la chiesa è peccato talmente grave da non consentire più l'accesso ai sacramenti, inclusi quindi i cattolici Casini e Berlusconi. La Chiesa, per coerenza e per principio, dovrebbe scendere in campo su un tema sul quale è stata già sconfitta da due referendum anticattolici, e dubito che il popolo italiano oggi sia meno laico di quello di trent'anni fa.

Ma ora l'omino senza peli in scarpette di Prada pretende di parlare di natura. Benissimo. Gli omosessuali sono contronatura? D'accordo, andiamo avanti. Facciamo finta che sia vero, e continuamo il sillogismo. La castità è contro natura. La fedeltà è contro natura. Amare il proprio prossimo come se stessi è contro natura. L'essere unitivi e procreativi con una donna sola nel corso della nostra esistenza quando produciamo milioni di spermatozoi al giorno è contro natura, i geni, per non dire altro, ci dicono di inseminare e fuggire. Il celibato è contro natura. La Chiesa è contro natura. I preti sono contro natura. Perfino l'omino senza peli che parla di natura e contro natura è contro natura. I miei auguri, comunque, ai partecipanti del Family Day. Io vado al Bioparco, come ogni settimana, a scambiarmi sguardi d'intelligenza con i bonobo.


(uscito sul "Riformista" del 15 marzo 2006)

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Le radici cristiane dell'Europa

Le radici cristiane dell'Europa


Riprendo da Rododentro questo post meraviglioso.
Ringrazio Filippo per questa vignetta.
E soprattutto ringrazio Francesco per la segnalazione.

Vittorio

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23 marzo 2007

Declino

Come affrontare un discorso sul declino dell'impero (qui inteso come concetto) e sulla decadenza, quale orientamento dare a un numero che vuole essere incentrato su questi temi? Sono queste le prime domande che ci siamo posti avviando la riflessione propedeutica al prossimo volume di Tabard. La prima immediata risposta a questi quesiti è stata la seguente: evitare innanzitutto di impostare la nostra discussione sulla mera analisi di diversi fenomeni di decadenza e, soprattutto, escludere dai nostri interessi il tentativo di descrivere la nostra realtà attuale come "epoca di decadenza". Si è cercato quindi, almeno inizialmente, di individuare una serie di criteri per definire i concetti di decadenza e declino, cercando di conciliare e mettere in relazione le nostre molteplici interpretazioni. Questo dunque l’orientamento, che si è voluto appositamente privo di alcuna tesi di fondo rigidamente definita.

Nel corso di una prima riunione (ahimé datata fine febbraio, e se questo resoconto è così tardivo e perché i miei tempi sono quello che sono) abbiamo cominciato freneticamente ad avanzare ipotesi. Il contributo a mio avviso più significativo è stato apportato da Achille, la cui attenzione si è concentrata sull'identificazione decadenza-retorica, qui intesa come strumento coercitivo e punto d'approdo di un potere che giunge alla violenta imposizione di se stesso. Strettamente connessa a questa argomentazione è, secondo me, l’analisi dell’impero come organismo autoconservativo, all’interno del quale viene percepita come decadenza ogni spinta propulsiva di rottura che mette in discussione la ripetizione formale dello status quo. Altri aspetti caratterizzanti del concetto di declino, come indicato rispettivamente da Mimmo ed Ezio, possono essere l’epigonismo e quello che potremmo definire "apocalittismo", da cui deriva la continuità del concetto di declino nelle diverse epoche storiche oltre che una sua possibile definizione come "fine che non c’è mai stata".

Interessante anche la riflessione di Antonio che tende ad evidenziare la percezione della fase di declino da parte di un impero delocalizzato nel momento in cui esso non riesce più a gestire il controllo del territorio. Inoltre, spostandosi in ambito giuridico, Antonio avanzava la possibilità di evidenziare come segnale di declino la violazione dell’habeas corpus nella lotta al terrorismo.
Ancora, da parte di Lorenzo, sono stati invece proposti suggerimenti sul concetto di declino come consumo delle risorse (con riferimento a Rifkin) e stasi delle idee (nel senso di mancanza di innovazioni del pensiero).
Questa la serie di primi spunti raccolti in maniera molto sommaria. Discutiamone.

Vittorio

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FRAM-ME-NTEGGIO

A ogni nuova partita,
giocassero pure per tutta la vita,
i giocatori si ritrovano a zero
e nelle stesse condizioni che all’inizio
(R. Caillois, I giochi e gli uomini)

Come se tenessero un’evidenza indiscutibile, una serietà sacrosanta, pure nella leggerezza, pure nel gioco, come inchiavate in una lettura, seppur tutte da sdecifrare, pure in una difficoltà deliberata, magari in dissimulo, magari col suono ingannevole che trascina in tutt’altra parte, pure fosse una lunghezza tortuosa, a torbellino, o in facilonerie, al contrario, pure in un bacio perugino, magari in uno sprazzo di puro amore fossilizzato, magari in uno slancio patetico da uomo-cuore. Come un peso più peso, una similitudine ben riuscita, un ordine insicurato da una convenzione comune, anaforica. La parola scritta ha tutto un alone di certezza.
(l’autore)


Hai camminato con quel facile emozionalismo da musica in cuffia. (deve riprendere a narrativizzare). Ti sei di nuovo riscritto in mente cose. Le attese, perché ci ritrovi un ordine significativo. Una buona ripresa della vita. (discreta). Furtiva, e già riprovocata. Quando riprendi le cose in penna, ti viene quasi avvolte da piangere, come in cuffia. Isoli un campo di gioco, mosseggi, punti, e spieghi le spuntate, ti rispieghi e svaghi di nuovo col giro delle pedine. Oggi è successo questo, poi c’infili una bella impennata-guadagna-punti e sei un uomo sensibile, che rigioca il giocato in cartapenna, mica lo sbutta lì come lo spicciolo pel latte, ti ricolori il parolaio, lo sdeformi un poco (sta giocando a fare noi), ed ecco che è materiale da uomo maturo che vive e dispensa le cose, ci ritrova un modo d’essere e glie lo crea e sa e coscientizza e vive di più a lungo ‘quistando palazzoni in vicolo corto, o una laurea sportiva, e un colore tentato sempre un cuore invece che un quadro e (metaforizzi) lei, tu ciao, gli dici, oggi sì.
(tu)

ug (seguirà qualcosa di più o meno più "serio" più o meno relazionato)

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21 marzo 2007

Wikipedia oulipiana

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IL JIHAD È QUI, di Sergio Baratto

Da Il primo amore

La nostra civiltà, la nostra cultura, i nostri valori sono oggi messi in serio pericolo. Quasi nessuno ha ancora osato affrontare questo dato di fatto. Poche voci si levano, ma sono come voci che chiamano nel deserto. Anzi, proprio da parte di chi – istituzioni, partiti, movimenti, intellettuali – avrebbe per primo il dovere di far sentire la propria voce e la propria protesta, proviene solo un assordante silenzio, quando non addirittura qualcosa di peggio: un atteggiamento di impalpabile servilismo, tanto più insidioso in quanto si manifesta come una forma di sudditanza psicologica più o meno inconsapevole. È ciò che Bat Ye'or chiama dhimmitudine.
Lo scontro di civiltà è già incominciato: possibile che solo pochi riescano a cogliere questa verità evidente? La guerra santa è qui; i fanatici religiosi stanno lentamente erodendo ogni spazio democratico, con una pazienza e una perseveranza da talpa o certosino stanno innervando i gangli vitali del nostro Paese: possiedono già scuole confessionali, con cui lavano il cervello delle nuove generazioni e le preparano alla sudditanza e alla militanza fondamentalista; possiedono istituti bancari, centri culturali e di aggregazione, enti non profit e organizzazioni che dietro il paravento delle attività caritative veicolano l'idea della guerra santa e fanno affluire fiumi di denaro alla monarchia teocratica straniera da cui dipendono; diversi loro rappresentanti, abilmente camuffati dietro giacche, cravatte e discorsi rassicuranti, hanno fatto la loro comparsa all'interno delle nostre istituzioni. Ma c'è di più: gli emissari di quella casta sacerdotale stanno inesorabilmente colonizzando il nostro immaginario, le nostre concezioni, i nostri modi di pensare. Qualche anima bella mi risponderà che in fondo si sta parlando di una ristretta minoranza, violenta, certo, e caratterizzata da una incredibile capacità di proselitismo, ma pur sempre una minoranza; che la maggior parte dei loro fedeli sono persone normali, civilissime, aliene da ogni ideale di imposizione violenta del proprio credo. È avvilente dover perdere del tempo per rispondere a un'obiezione così ingenua (o in malafede), tanto è ovvio che tutti costoro, senza eccezione, a prescindere dal comportamento tenuto nella vita quotidiana, sono complici della guerra di conquista lanciata dai loro gerontocrati; che tutti costoro, che lo vogliano o meno, lavorano per il re di Prussia; che, per la sostanza della loro cultura, è sicuro che non muoveranno un dito di fronte allo smantellamento della nostra. Infatti, perché dovrebbero? Perché dovrebbero difendere un insieme di valori che, nella migliore delle ipotesi, sono totalmente estranei ai loro, e nella peggiore irriducibilmente opposti? Per quanto benevolmente possano guardare alla nostra "infedeltà", in qualità di nostri vicini di casa o colleghi di lavoro, noi resteremo sempre e comunque degli infedeli. Infine, sono sempre le minoranze forti e motivate a trascinare con sé le masse, le maggioranze, le greggi.
Stiamo certi: ci colonizzeranno, ci soppianteranno, ridurranno in polvere alla radice il nostro mondo. Lo stanno già facendo, accompagnati dal sorriso compiacente di molti utili idioti. Quanto ai pochi tra noi che osano denunciare lo scandalo di questa resa imbelle, il più delle volte vengono additati alla pubblica riprovazione: "Intolleranti! Nemici del dialogo! Incivili!". E a lanciare simili accuse, sublime paradosso, sono proprio loro: i veri incivili, i veri intolleranti, i veri nemici mortali di ogni dialogo. Un'assurdità apparente che trova facile spiegazione nella psicopatia collettiva di cui soffre la nostra società.

Ma la crescente arroganza con cui i fanatici religiosi conducono la loro guerra santa nel nostro Paese li sta portando a scoprire sempre di più il loro gioco, a renderlo sempre più palese, sempre più evidente. Oggi, A.D. 2007, è venuto per loro il momento di scatenare l'attacco al cuore del sistema, dello Stato. Lo faranno in grande stile, grazie ai mezzi generosamente messi a disposizione dalla loro monarchia teocratica. Il primo assalto lo vedremo nel maggio prossimo a Roma, quando un'orda di migliaia di fedeli esprimerà il proprio disprezzo per i diritti civili, urlerà il proprio odio per chi è diverso da lei, manifesterà contro la nostra cultura, i nostri valori, finanche le nostre istituzioni. Nulla di che stupirsi: la democrazia, laica pluralista e tollerante, è da sempre oggetto del loro orrore e del loro disgusto.
Lo faranno – dato che ancora non tutte le resistenze sono saltate – in modo subdolo, come è loro costume, ammantando il loro attacco al cuore della civiltà occidentale di parole d'ordine melliflue, volutamente ambigue, apparentemente condivisibili. Fanno sempre così: serve a spezzare l'unità del fronte avversario. Ha sempre funzionato, funzionerà anche stavolta; il trucco, del resto, è sperimentato: basta prendere un valore condiviso, incontestabile – per esempio la famiglia (che non è nemmeno un valore perché viene ancora prima dei valori, perché è un dato di fatto) – e piegarlo ai propri fini, inventando per esso una minaccia inesistente e ripetendo l'allarme fino alla nausea, fino a quando il gregge si convincerà che per forza di cose quella minaccia deve essere reale. Lo faranno inventando un nemico e martellandolo di accuse. È la vecchia strategia di Hermann Goering.
Stavolta, il nemico siamo noi. Possibile che nessuno abbia il coraggio di ribellarsi?

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20 marzo 2007

Articolo 3, articolo 7 e articolo 8, cazzo!

Da Repubblica.it di qualche giorno fa, scopriamo che il gerarca cardinale Ennio Antonelli, supervescovo di Firenze, in piena obbedienza ai dettami dell'imperatore Maledetto XVI¹, scrive alla povere famiglie toscane minacciate dai DiCo una lettera di sprono, un eribanno, un canto disperato, una chiamata alle armi contro la barbarie pacsiana. Alcuni passaggi di questo capolavoro di retorica e analisi socio-politica di S. E. Rev.ma Gran. Figl. Di. Putt. Pezz. Di. Merd. recitano:

"La famiglia sta venendo privatizzata, ridotta a un semplice rapporto affettivo, senza rilevanza sociale, come se si trattasse soltanto di una forma di amicizia"

Ennio Antonelli (indimenticabile interprete tra l'altro di Otello "Manzotin" Rinaldi nel capolavoro Febbre da cavallo e del pizzettaro di via della Scrofa in Fantozzi subisce ancora), laureato in Lettere classiche all'Università di Merda², professore di Storia dell'arte e Teologia dogmatica all'istituto teologico di Assisi, segretario generale della CEI³ dal 1995 al 2001, è evidentemente un imbecille.
Che la famiglia fosse statale non l'avevo mai saputo, ma tutto sommato in tempi di privatizzazioni selvagge non mi scandalizza che ci siamo svenduti pure quella. E pensare che io, cretino!, ero convinto che ci volesse ancora del coraggio e della consapevolezza da parte di una coppia (magari omosessuale) per dare proprio rilevanza sociale al suo rapporto d'amore (non affetto, non amicizia. AMORE) tramite un patto con la società, con lo Stato. Ma continuiamo l'illuminante lettura:

"A sua volta la precarietà della coppia incide negativamente sulla nascita e sull’educazione dei figli, compromettendo il bene stesso della società [...]. In Italia abbiamo la natalità più bassa che ci sia al mondo [non esageriamo, siamo quintultimi], in media un solo figlio per donna (o poco più), mentre ne occorrerebbero due (o poco più) per il ricambio generazionale. Senza un’inversione di tendenza, si prevede che in breve tempo la popolazione italiana sarà dimezzata. Qualcuno potrebbe dire: “Meglio così! Si starà più larghi e si starà meglio!”. Ma questo è completamente falso."

Aldilà dell'espressività da tema di quinta elementare, vorrei proporre una soluzione: se siete tanto preoccupati della bassa natalità italiana, perché non liberate i vostri seminaristi in calore e i vostri preti arrapati dal giogo medievale della castità? Due piccioni con una fava: aumenterete il numero dei maschi attivi (e incredibilmente ingrifati da anni di digiuno e riviste pornografiche) e diminuirete quello dei bambini violentati. Ma il capolavoro, la summa teorica di Sua Schifezza Antonelli, arriva alla fine:

"L’instabilità del rapporto di coppia reca grave danno anche all’educazione dei figli, compromettendo spesso il loro equilibrio psicologico e predisponendoli a comportamenti disordinati e devianti. A riguardo le indagini statistiche rilevano, con percentuali impressionanti, fenomeni di disagio sociale, tossicodipendenza, micro e macrocriminalità, lasciando intuire facilmente quali siano i costi per la società nel suo insieme"

Storiella vecchia come il mondo. Laida mistificazione (ignoriamo qui il fatto che un prete che parla di famiglia e di riproduzione è come una gallina che disserta di tecniche di volo). Evitando completamente ogni passaggio logico o riflessione o anche semplicemente un'opinione che sia una, si designano le forme alternative di famiglia come cause dirette e alcove dell'instabilità di coppia, elemento che poi, con una altrettanto bieca forzatura, viene indicato come creatore privilegiato di disagio giovanile, tossicodipendenza e addirittura MACROcriminalità. Ma certo, le persone diventano eroinomani o assassini perché nati fuori dal matrimonio. Che sciocco, non ci avevo capito niente. Meno male che mi è cascato un occhio su quel gioiello di analisi sociale per ampiezza di punti di vista e fonti di ricerca che è Famiglia e società di Ennio "Manzotin" Antonelli, ipervescovo di Firenze, il "burino più infame di tutti i burini".

Paolo


Note:
1: Maledetto XVI è copyright di un amico di Buoni Presagi. Grazie ad Achille per la segnalazione, è un blog intelligente e fa anche spataccare dalle risate.
2: Perugia.
3: Cazzoni Episcopali Ingerenti.

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19 marzo 2007

Il nostro pane quotidiano

Che la fattoria del Mulino Bianco, i pollai della Vallespluga o i pascoli della Milka siano delle bieche prese per il culo era notorio; ma che cosa c'è realmente dietro la roba che ingurgitiamo è meno chiaro: per capirlo meglio vi consiglio la visione di Notre pain quotidien, da poco uscito in Francia (in Italia, come spesso capita, ancora non ha un distributore), un documentario del regista austriaco Nikolaus Geyrhalter.

Si tratta di un prodotto decisamente audace e innovativo: uno sguardo dietro le quinte della produzione alimentare industriale europea. Vero e proprio sguardo: il film infatti è assolutamente privo di commenti, interviste, didascalie o dialoghi; anche la musica è assente. Tutta la visione è accompagnata esclusivamente dai rumori ambientali ritmici e lontani delle fabbriche, dei campi o delle serre dove il nostro cibo viene prodotto. Non-fiction pressoché totale. Ci vengono mostrati gli allevamenti di carne ovina, bovina e di pollo, di pesce e le coltivazioni di patate, cetrioli, girasoli e le macchine vagamente antropomorfe che li gestiscono. Una fotografia perfetta e ispiratissima ci regala punti di vista e quadri minimalisti selezionati magistralmente per efficacia e ironia: il lancio dei pulcini nelle ceste di distribuzione, la castrazione dei cuccioli di maiale, lo sventramento dei pesci, la riproduzione dei bovini (con dei maschi talmente gonfi di steroidi da parere ippopotami, giuro), la disinfestazione dei girasoli, lo scavo nelle cave di sale: tutto incastrato a perfezione in un mondo meccanico costruito a misura. Un pugno allo stomaco che fa riflettere su tutto quanto c'è dietro al petto di pollo o alla mela che ci ritroviamo nel piatto.

C'è spazio anche per una velata (ma neanche tanto) critica alle condizioni di lavoro degli operai: uniche figure umane del film, silenziose e metodiche, ingabbiate quasi al pari delle bestie in una catena di montaggio che li richiede esclusivamente per quelle poche operazioni per cui non è stata ancora inventata una macchina. Il parallelismo ad esempio tra le fila di gabbie stracolme di polli e, nell'inquadratura successiva, l'autobus stipato che porta gli operai al lavoro lascia intendere qualcosina a riguardo. Taylorismo al massimo livello: agghiacciante la raccolta delle verze in cui gli operai procedendo carponi strappano e imbustano i frutti da terra, inseriti in una sorta di struttura mobile sospesa e illuminata (sì, in Germania si lavora anche di notte) da un trattore che li segue e li incalza. Qualche operaio ci viene mostrato anche nelle pause pranzo, silenzioso e vagamente alienato, mentre stacca per mezz'ora da una routine incessante (e tutta la sala si chiede cosa stia mangiando...). Alla fine il disgusto che ci si potrebbe aspettare dalla visione di un'opera tale viene meno già dalle prime immagini, e si lascia la sala più colpiti dall'aberrante freddezza e perfezione del marchingegno produttivo e dal vago sospetto che dietro ogni aspetto delle nostre vite, non solo quello alimentare, ci sia una rete (excuse me mister Pynchon) di controllo del genere. Gli animali stessi perdono ogni aspetto del loro essere viventi e ci si abitua presto a vedere migliaia di pulcini nati in incubatrice e letteralmente sparati a tappezzare capannoni di qualche ettaro fino a divenire un tappeto di polli identici immobili e pigolanti.

Oltre il soggetto, la forma: l'opera è come una mostra fotografica, in cui ogni inquadratura è mantenuta per tempi lenti ma che non annoiano, assolutamente necessari allo spettatore per trarre le proprie conclusioni e immedesimarsi nella ritmica cadenzata delle produzioni. Anche l'assenza di dati, cifre, statistiche o didascalie tout court è scelta estetica: il regista la spiega così (la pessima traduzione dall'inglese è mia): "Penso anche che le cose mi siano rese troppo facili, come spettatore, se vengo imboccato di informazioni. Questo mi smuove un pò, mi fa lavorare, ma poi può essere messo rapidamente in prospettiva, e funziona come tutte le altre notizie sensazionalistiche che ci bombardano giorno dopo giorno perché è il genere di cose che fa vendere i giornali - e che offusca anche la nostra visione del mondo. In questo film uno sguardo dietro le strutture è permesso, viene concesso il tempo per fare propri i suoni e le immagini ed è possibile pensare al mondo dove il nostro cibo viene prodotto, mondo che normalmente ignoriamo". Perfetta fusione tra reportage e fotografia, emerge tutta la ricerca fatta sui luoghi e i materiali, incentivo alla ricerca personale, estetico e informativo: lo spettatore ne sa comunque di più alla fine e non ha visto che delle immagini che certo ricorderà meglio di qualunque tabella o percentuale. È un atto di fiducia verso lo spettatore critico e un esempio importante di documentario artistico.

Le citazioni non mancano: le distese immense di serre illuminate di notte non possono non far pensare alle apocalittiche serre "umane" di Matrix (e la fantasia dei Wachowski esce molto ridimensionata dopo la visione di questo documentario) e l'eterno Chaplin di Tempi moderni fa capolino dietro l'addetta a tranciare le gambe dei maiali o quello alla sistemazione dei pesci sul nastro trasportatore. L'idea del film venne al regista austriaco (autore tra l'altro di un interessante documentario sul dopo Cernobyl, Pripyat) dopo la lettura di alcune ricerche che dimostravano come oggi un europeo medio spende solo l'8% del proprio denaro in cibo quando negli anni '50 questa percentuale era circa del 30%. La soluzione è appunto nei metodi di produzione che, sebbene disumani, permettono l'abbattimento dei costi e l'abbondanza di prodotti necessaria per sfamare (spesso più del necessario) il nostro opulento Occidente.

Non che questo film possa far cambiare gusti ad un carnivoro convinto, ma certo che dopo la visione del film e la lettura di questo, di questo o di questo, qualche dubbio comincia a venire. Poi certo, mi mangio una delle salsicce secche di Norcia che mi ha spedito mammà e passa tutto.


Paolo

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Cari ragazzi

Non mi é ancora del tutto chiaro se questo spazio chiude a breve o no: comunque, queste righe sono scritte nell´idea che spariscano presto. Mi sono detta, se il post di Vittorio è uno sfogo o proprio ha centrato la matrice dei nostri malfunzionamenti, informatici e non, visto che così relazionati e intrigati come siamo riusciamo davvero poco a “lavorare” bene separandoci, se dovremmo allacciare bene il più possibile le cose insieme, per tenere in piedi il lavoro sulla rivista e tutto il resto: che il nostro relazionismo – per quanto poco bene funzioni con l’esterno, forse – sia fra di noi molto poco una scelta, ma invece l’ossatura stessa del gruppo, pochissima teoria, tanto che se viene meno non si fa più niente nella pratica (lo stesso Zusammenarbeit scritto alla fine dei vocabolari, quello che serve per fare i linguaggi comuni). Poi, che questo sia a volte un paravento alle nostre insicurezze di singoli, mi sembra in fondo poco pericoloso, e tutti possiamo sempre andarcene a periodi via per verificarlo (il che come sapete è solo una scusa. Non siamo veramente assenti se non per il fatto che lo sentiamo permesso, per un po’). A chi resta, ora va il compito più faticoso di tenerci la rete sotto (in tutti i suoi significati, anche se Pynchon dice che non va più tanto bene come immagine, dovremmo metterci a cercarne un’altra): anche se forse ognuno di noi avrebbe le sue rimostranze da fare.
Questa l'ho sempre letta pensando a voi.


Liebe Jungens!
Warum fragt Ihr mich nie an, was ich mit dem Geheimnisvollen “Schweigt mir von Rom” gemeint hab?
Ich wollte mir nämlich einen Wahrsagesalon eröffnen, „Schweigt mir von Rom“
– aber da Ihr beide stillschweigend darüber hinweggegangen seid,
wir sollten da die Fremden hereinfallen.


Cari ragazzi!
Perché non mi avete mai chiesto cosa intendessi con la misteriosa frase: ‘Non parlatemi di Roma’? Volevo aprire uno studio di chiromanzia con il nome ‘Non parlatemi di Roma’,
ma dal momento che l’avete tutti e due ignorato in silenzio,
come potrebbero cascarci degli estranei?
(Else Lasker-Schüler)


Daria

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12 marzo 2007

Una sera come tante





Una sera come tante

di G. Giudici






Una sera come tante, e nuovamente
noi qui, chissà per quanto ancora, al nostro
settimo piano, dopo i soliti urli
i bambini si sono addormentati,
e dorme anche il cucciolo i cui escrementi
un’altra volta nello studio abbiamo trovati.
Lo batti col giornale, i suoi guaiti commenti.

Una sera come tante, e i miei proponimenti
intatti, in apparenza, come anni
or sono, anzi più chiari, più concreti:
scrivere versi cristiani in cui si mostri
che mi distrusse ragazzo l’educazione dei preti;
due ore almeno ogni giorno per me;
basta con la bontà, qualche volta mentire.

Una sera come tante (quante ne resta a morire
di sere come questa?) e non tentato da nulla,
dico dal sonno, dalla voglia di bere,
o dall’angoscia futile che mi prendeva alle spalle,
né dalle mie impiegatizie frustrazioni:
mi ridomando, vorrei sapere,
se un giorno sarò meno stanco, se illusioni

siano le antiche speranze della salvezza;
o se nel mio corpo vile io soffra naturalmente
la sorte di ogni altro, non volgare
letteratura ma vita che si piega nel suo vertice,
senza né più virtù né giovinezza.
Potremmo avere domani una vita più semplice?
Ha un fine il nostro subire il presente?

Ma che si viva o si muoia è indifferente,
se private persone senza storia
siamo, lettori di giornali, spettatori
televisivi, utenti di servizi:
dovremmo essere in molti, sbagliare in molti,
in compagnia di molti sommare i nostri vizi,
non questa grigia innocenza che inermi ci tiene

qui, dove il male è facile e inarrivabile il bene.
È nostalgia di un futuro che mi estenua,
ma poi d’un sorriso si appaga o di un come-se-fosse!
Da quanti anni non vedo un fiume in piena?
Da quanto in questa viltà ci assicura
la nostra disciplina senza percosse?
Da quanto ha nome bontà la paura?

Una sera come tante, ed è la mia vecchia impostura
che dice: domani, domani… pur sapendo
che il nostro domani era già ieri da sempre.
La verità chiedeva assai più semplici tempre.
Ride il tranquillo despota che lo sa:
mi numera fra i suoi lungo la strada che scendo.
C’è più onore in tradire che in essere fedeli a metà. [1]


[1] G. Giudici, La vita in versi (1956), Milano, Mondadori, 2000.

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08 marzo 2007

L'amicizia


È un pomeriggio strano, di quelli in cui mi prende una malinconia un po' indecifrabile, quasi ridicola o, se vogliamo, adolescenziale. E per questo me ne stavo ad ascoltare Alberto Fortis, e in particolare una canzone, L'amicizia, che in questo periodo di dinamiche particolari, tra il confuso e nevrotico accorpamento di gruppo che si fà sempre più insistente – e che forse mostra il cedere di un meccanismo che negli anni universitari ha funzionato e che ora va deteriorandosi – e altre manifestazioni di generalizzato disagio che molto spesso o non si colgono o si rifiutano, mi sembra riesca ad esprimere chiaramente alcuni dei gangli di questa situazione, così come molte altre canzoni di Fortis del suo primo album omonimo risalente al 1979, che ci hanno accompagnato nel corso dell'università, rispecchiavano quella nostra passata condizione forse più serena, o meglio meno complicata, dell'attuale. Ma comunque, tanto per non tediarvi, eccovi il testo.

Vittorio


«Come farai a parlare
di bontà del tuo lavoro
come farai a parlare di te
che tremi e sudi
come farai a credere negli altri
che desideri ammazzare
se non ti dicono "bravo"
come farai a rubare il sole
che era tuo
e come farai
a non essere doppio nella tua persona
di uomo che vive
e di amante
come farai
a regalare tutto
se con l'età ti uccideranno l'amicizia
che dell'anno che va
è la stagione più bella
ha la luce di una stella
che non muore
e vorresti fosse lei l'amore
ma il tempo che passa
porta guerra e falsità
e l'amicizia non potrà
camminare sotto braccio
coi discorsi fastidiosi
che due sposi devono dire
per partire lontano
stringendosi la mano nella mano
e dentro una bugia
come farai
a unire questi amori
che non troverai mai insieme
come farai»

L'amicizia, Alberto Fortis

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