28 settembre 2006

Esperienza situazionista

2 giorni fa sono uscito di casa a Firenze per andare a correre. Avevo solo una vaghissima idea di dove sarei andato. Volevo dirigermi verso Fiesole, verso le amate alture dell'Appennino. Ma non sapevo esattamente dove quella strada che ormai stavo percorrendo mi stesse portando. Stavo in qualche modo non solo scoprendo le strade dietro casa mia (mi ero sempre rivolto davanti, verso il centro), ma anche creando, stavo creando il mio paesaggio, potevo modificarlo decidendo se andare dritto, a destra o a sinistra (modificarlo per il presente corrente ma anche per il futuro, perché sapevo che molto probabilmente quella scelta avrebbe influenzato le mie future corse). Qui a Firenze, quando vinco la pigrizia, è più facile inventare paesaggi, rispetto a quando invece sto nel mio natio borgo selvaggio. Il sapere (soprattutto quello rivoluzionario) passa sempre attraverso la costruzione di un paesaggio teorico; una teoria nuova presuppone sempre un paesaggio nuovo (ne parla Paolo Bollini nel nuovo numero della rivista-antologia della Bottega dell'Elefante, Materiali 2, sui libri che meravigliano e muovono, di imminente uscita). Per questo gli sguardi stranianti (dei fuorisede a Bologna, dei bolognesi a Firenze, dei senesi a Francoforte, dei potentini a Città del Messico, dei ternani a Parigi) sono sempre potenzialmente rivoluzionari, perché vedono i varchi, gli scarti tra le rappresentazioni della città, gli anelli che non tengono. E questi occhi poi devono associarsi ad una voce, ed esprimere a parole quello che hanno ritenuto.

Andrea

(Per tagliare la testa al toro e non saper né leggere né scrivere - come si dice a Bologna - pubblico questa mia noterella filologica sia come post che come commento al post di Ezio)

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17 settembre 2006

Sentenze gramsciane

Volevo sottoporre alla Vostra attenzione alcune sentenze del Gramsci "togliattiano" del volume sugli intellettuali (sezione "giornalismo").

"Distinzione tra movimenti militanti, che sono i più interessanti e movimenti di retroguardia o di idee acquisite e divenute classiche o commerciali"

"Bisogna quindi riconoscere apertamente che le riviste di per sé sono sterili, se non diventano la forza motrice e formatrice di istituzioni culturali a tipo associativo di massa, cioè non a quadri chiusi"

"Perciò non bisogna turbarsi della molteplicità delle critiche: anzi la molteplicità delle critiche è la prova che si è sulla buona strada; quando invece il motivo di critica è unico, occorre riflettere: 1) perché può trattarsi di una deficienza reale; 2) perché ci si può essere sbagliati sulla "media" dei lettori ai quali ci si riferisce, e quindi si lavora a vuoto, "per l'eternità"

"La rivista (ossia il direttore della rivista) deve formare anche i suoi collaboratori stranieri per raggiungere l'organicità"

"Non si nega l'utilità (specialmente commerciale) di avere grandi firme. Ma dal punto di vista pratico di promuovere la cultura, è più importante il tipo di collaboratore affiatato con la rivista, che sa tradurre un mondo culturale nel linguaggio di un altro mondo culturale, perché sa trovare le somiglianze anche dove esse pare non esistano e sa trovare le differenze anche dove pare ci siano solo somiglianze, ecc."

Andrea Severi

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12 settembre 2006

Sassate

Da poco rientrato a Roma dopo due mesi di vacanza in Irlanda, mi trovo a ripensare alle impressioni che mi ha lasciato Belfast, l’ultima città visitata nel corso di questo mio viaggio nella verde Eire. Entrando nella capitale dell’Irlanda del Nord(1) avevo la convinzione di mettere piede in una città in cui, a distanza di otto anni dalla firma degli accordi tra repubblicani e unionisti, il processo di pacificazione fosse oramai completato. E fondamentalmente è proprio questa l’idea che il centro di Belfast, anche con un eccesso di prodigalità, cerca di comunicare ai propri visitatori. Per mettermi quindi in condizione di meglio capire questa città e il suo recente passato decido, assieme all’altro tabardiano Paolo Cova, di avviarmi verso lo storico quartiere cattolico e proletario di West Belfast. L’idea di fondo era che nei famosi murales che decorano quest’area avremmo trovato delle significative testimonianze di una realtà di segregazione, violenze e scontri ormai relegata al passato.

La visione della Divis Tower – l’enorme grattacielo sopravvissuto alla demolizione dell’orribile e disumano complesso abitativo noto con il nome di Divis Flats(2) – sembrava in qualche modo rispondere ai presupposti di questa “escursione”. Inoltre è proprio a partire da questo punto che si cominciano a incontrare i primi murales e le prime targhe commemorative delle vittime della violenza della polizia e dei corpi speciali inglesi. Addentrandomi più profondamente all’interno del quartiere che si sviluppa ai lati di Falls Road ho poi avuto la possibilità di entrare in contatto ancora più serrato con la storia di West Belfast. La realtà che si palesa qui è infatti costituita da case, scuole e addirittura da alcuni pub recintati, con le finestre protette da reti e le porte blindate da saracinesche. Inizialmente mi è sembrato che questi elementi fossero però semplici vestigia, testimonianze di una situazione ormai lontana dall’attualità. Ma quest’impressione sbagliata è stata prontamente smentita dall’osservazione diretta dei comportamenti delle persone all’interno del quartiere.

Il primo shock culturale è stato l’assistere alle ronde di vigilanza che ragazzini dai 13 ai 16 anni effettuavano isolato per isolato tenendo dei pit bull al guinzaglio. In questo sistema di controllo del territorio i giovani incaricati delle ronde avevano poi il compito di passare periodicamente a riferire (spesso solo con un rapido cenno del capo) a differenti luogotenenti (in genere di età compresa tra i 17 e i 25 anni) appostati in gruppi di 4-5 dentro automobili parcheggiate nei principali incroci. La sorveglianza così esasperata del territorio non è resa necessaria soltanto dalla gravità di alcuni recenti fatti di cronaca(3), ma anche dal rischio reale – di cui mi sono reso conto personalmente solo durante questa visita a Belfast – di incursioni teppistiche da parte di bande di orangisti. Ad aggravare questa situazione avrà inoltre indubbiamente contribuito anche lo stato di tensione tipico del periodo di fine agosto (a seguito delle manifestazioni protestanti che hanno luogo tra luglio e la prima metà del mese successivo) nonché la particolare ricorrenza del 25° anniversario del famoso hunger strike(4). Com’è naturale che accada, questo clima di concreta apprensione modifica abitudini e costumi degli abitanti del quartiere deviandoli verso forme paranoiche. In tal senso il caso più emblematico riguarda il momento in cui i bambini vengono riaccompagnati a casa in auto: genericamente l’autista, dopo essersi fermato di fronte all’abitazione, suona ripetutamente il clacson per avvisare all’interno dell’arrivo dei ragazzi. I bambini, dopo una rapida corsa, trovano già qualcuno ad aprire loro la porta e in tal modo la loro esposizione all’esterno viene ridotta al minimo.

Nel contesto di questa esperienza non sono però mancati momenti di grande serenità. La visita all’interno del quartiere cattolico è stata infatti accompagnata da continue manifestazioni di affetto da parte degli abitanti del posto, evidentemente affratellati a noi dal constatare il nostro interesse per la loro storia recente (interesse palesato anche dalla mole di fotografie scattate ai murales). Sorrisi, urla di gioia, saluti e gesti di approvazione talvolta lanciati anche dall’altra parte della strada, inni alla rivoluzione e quant’altro costituivano le reazioni più comuni, da parte di persone di ogni età, al nostro semplice passaggio. Questa sensazione di serenità è stata presto azzerata dalla scoperta delle cosiddette peace line, le no man’s land tra i quartieri cattolici e quelli protestanti (attualmente ancora separati da mura) sovrastate e controllate da imponenti caserme militari.

Naturale conclusione di questa esperienza a West Belfast sarebbe stata una visita anche al quartiere protestante. Il proposito comune, purtroppo, si è rapidamente rivelato irrealizzabile. Infatti, attraversando la no man’s land (uno stradone, chiuso tra le mura della caserma e quelle che delimitano i due quartieri, su cui le auto sfrecciano rapidamente e sul quale non esiste traffico pedonale) siamo stati fermati dal conducente di un auto. L’uomo, dopo aver bloccato la macchina in mezzo alla strada, ha cominciato ad avvertirci, in maniera molto concitata e con un terribile accento irlandese, della presenza di un gruppo di ragazzi (probabilmente di 13-14 anni) armati di pietre e bastoni che ci aspettava all’uscita della curva che stavamo percorrendo. La sassaiola, che temo avrebbe potuto essere un po’ più seria di una scaramuccia alla Pergaud, sarebbe stata motivata dal semplice fatto che in quel momento provenivamo dal quartiere cattolico. Resa edotta delle condizioni ambientali avverse, la delegazione tabardiana ha dunque prontamente deciso di rientrare nel ben più ospitale quartiere cattolico, evitandosi così per poco e per puro caso di riportare da Belfast qualcosa in più di una semplice impressione di conflitto latente.

Vittorio Martone


(1) Sia per una questione di rispetto nei confronti dei repubblicani irlandesi che a causa delle mie personali convinzioni politiche, preferisco in genere riferirmi a questa regione usando il nome Ulster.

(2) A tal proposito, una piccola curiosità. La demolizione del Divis Flats ed il conseguente rinnovo urbanistico del quartiere, comprendente la costruzione di abitazioni modello più confortevoli degli spaventosi “casermoni”, rientrò nell’ambito del processo di pacificazione come simbolo di ammenda del governo nei confronti della popolazione cattolica di West Belfast. Secondo molti la Divis Tower sarebbe stata conservata proprio come esempio delle precedenti condizioni abitative in questo quartiere. La realtà, purtroppo, è molto diversa: all’impressionante grattacielo è stata infatti risparmiata la demolizione poiché esso costituiva per l’esercito un punto privilegiato per l’osservazione e il controllo di quest’area. Il presidio militare sulla torre è stato rimosso solo nel 2005 ed oggi, in cima alla Divis Tower, campeggia un tricolore della Repubblica irlandese affiancato ai lati da due bandiere a lutto.

(3) Si veda ad esempio il caso dell’uccisione del quindicenne Michael McIlveen. Al riguardo è necessario sottolineare che la questione nordirlandese rientra oggi nella trattazione dei nostri media esclusivamente sul piano della cronaca nera, mentre resta nulla l’attenzione rispetto al processo politico ancora in corso.

(4) Nel 1981 Bobby Sands, comandante in capo dell’IRA rinchiuso nell’H-Blocks della terribile prigione di Long Kesh a Belfast, inizia uno sciopero della fame al fine di ottenere per sé e per gli altri detenuti repubblicani lo statuto di prigionieri politici (che era stato loro sottratto dal governo britannico). I compagni di detenzione lo seguono a intervalli regolari di una settimana, secondo una strategia messa a punto dallo stesso Sands per aumentare l’impatto mediatico della protesta. Dopo mesi di sciopero Sands e altri nove suoi compagni dell’IRA e dell’INLA (Irish National Liberation Army) muoiono d’inedia.

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11 settembre 2006

Pensieri per un discorso sulla città

-Il Sogno della città giardino (V. E. Howard, L'idea della città giardino, Bologna 1952)

Questo modello di pianificazione urbana, volto a recuperare una dimensione più umana dopo le aberrazioni della congestionatissima città industriale, organizzata in meccanica funzione del profitto, consiste molto schematicamente nell'articolazione dell'incipiente spazio megalopolitano in unità compatte, separate le une dalle altre da fasce verdi, provviste di attrezzature standardizzate, di una densità abitativa determinata e di tutta una serie di accorgimenti che renderebbero non soltanto più vivibile la quotidianità urbana, ma che inoltre dovrebbero veicolare una partecipazione attiva dei cittadini alla vita politica urbana attraverso luoghi di riunione - detti centri sociali - per una gestione locale dei problemi locali. Gli eredi di questa idea sono i suburbi e, in ultima istanza, le gated communities e i turfs, essendo questi ultimi quartieri residenziali recintati, chiusi all'accesso pubblico e molto spesso sorvegliati a vista da professionisti del mestiere.

-Il fallimento del sogno suburbano

Il fallimento del sogno suburbano, rimanda all'impossibilità di inserire delle cellule sane e felici in un corpo urbano in stato ormai avanzato di metastasi, cioè rimanda all'impossibilità di trincerarsi dietro invisibili muri di egoismo e di ritagliarsi un idilliaco giardino, quando si è circondati da una sterminata discarica globale. Questo sogno svanito suscita interrogativi etici e sociali molto più profondi al risveglio.
Infatti lo sviluppo del suburbio e delle zone residenziali per redditi medio-alti, come è massimamente evidente nella realtà americana, non ha fatto che frantumare il tessuto sociale e isolare ancor più gli individui, trasformandosi in una scelta strategica per le politiche del controllo da quell'iniziale ispirazione caritatevole o filantropica concessione: per gli abitanti di questi "villaggi" la realtà diventa sempre più quella documentata dai media.
Estratti come sono dal tessuto storico della città, la vita appartata di questi cittadini che avrebbe dovuto rilanciare una passione civica di ellenica memoria, non è altro che una fuga dal caos e dalle responsabilità.
Inoltre un tale sviluppo non fa altro che fiondare abitazioni a notevole distanza dai centri cittadini in una strenua ricerca di luoghi da colonizzare prima e da servire poi, con un sempre più complesso sistema di strade a scorrimento veloce e riservate al traffico degli autoveicoli, in gran parte privati.

-Un vecchio luogo d'incontro

Delle strade siffatte dunque, separano piuttosto che unire, scavano solchi e fossati spesso invalicabili nel territorio urbano. Delle strade siffatte inoculano negli abitacoli delle autovetture i cittadini "privilegiati", precedentemente barricati nelle unità uni-familiari, uni-lateralmente controllate da una capillare diffusione mediatica, per eleggere il sobborgo a luogo principe del nuovo assolutismo e a solvente corrosivo della città e del suo intricato tessuto di rapporti sociali.
Il tempo si sostituisce allo spazio, al luogo si sostituisce la sua negazione: le direttrici principali di comunicazione, astratte come flussi informatici, sì uniscono luoghi un tempo distanti e ora continui, ma costruiscono mura insuperabili, nel paesaggio e fra i gruppi sociali: se per le classi medio-alte l'isolamento è una scelta, negli slums, nelle banlieux, nelle bidonvilles l'emarginazione e l'isolamento sono imposti tangibilmente da una configurazione urbana discriminante.

-Il pedone escluso

Nel '74 Ballard testimoniava la situazione di "isolamento" assoluto del "pedone" nel romanzo L'isola di cemento, in cui un uomo, vittima di un incidente, rimane prigioniero appunto nell' isola spartitraffico di una high-way, mentre gli automobilisti sfrecciano incuranti e velocissimi, ridotti ad insensibili involucri di metallo. La città contemporanea, sottoposta alle esigenze della mobilità meccanica, è un luogo ostile al pedone. Il tanto decantato potenziamento dei trasporti, che esige enormi investimenti e che produce altrettanto enormi profitti non è che pura speculazione su una situazione di intollerabile irrazionalità nella configuarazone urbana ed è mero palliativo a problemi strutturali.
La disordinata ed insensata crescita urbana più che produrre policentrismo annienta la città come unità culturale e la declassa a invivibile "conurbazione".

-Le città invi(vi/si)bili

Calvino in una delle sue conferenze americane diceva che "Le città invisibili sono un sogno che nasce dal cuore delle città invivibili". Questo suggerisce una suggestiva omonimia: Mumford (La Città nella storia, Bompiani, Milano 1994) chiama "città invisibile" quella griglia funzionale che, nell'epoca della smaterializzazione o della eterizzazione, va a rimpiazzare compiti una volta assolti dalla città (come per esempio il controllo della collettività e del territorio o lo smistamento dei beni).
Saskia Sassen più di trent'anni dopo studierà le conseguenze materiali e sociali della smaterializzazione dell'economia, nella misura in cui anch'essa, per quanto tendente ad un'assoluta autonomia dalla reltà fisica, necessita di un fabbisogno umano a vari livelli della gerarchia sociale. Perniola d'altra parte completa il quadro in un breve saggio apparso su Eterotopia (M.Foucault, Millepiani, Mimesis, 2005) e restituisce ad un tale attore urbano un'adeguato quanto suggestivo proscenio: il paesaggio concreto dell'urbe sarebbe il "resto materiale che la smaterializzazione informatica non riesce a dissolvere".

-Studiare la città

Studiare la città significa studiare la storia materiale e culturale dell'uomo, le cui vestigia sono disseminate sul pianeta in tutta la loro varietà culturale e temporale: le città sono sepolte, le città si scavano come tane sotterranee e si innalzano prepotentemente nella incessante conquista del cielo. Nelle città si condensano i desideri e le paure dell'uomo come già scriveva Calvino il quale aveva profondamente capito la natura "coerente" della città: tutte le città immaginabili, sto parafrasando, hanno una regola interna, un filo conduttore: esse sono paragonabili ad un "discorso".
Le città sono un discorso dell'uomo che si dipana nella storia, un discorso che può essere smembrato negli elementi che ne compongono il codice e analizzato e descritto, ma che, in ultima istanza, non può non rimandare all'uomo stesso, che la città l'ha immaginata, costruita, modificata, l'uomo che ha assediato, espugnato, abitato ed infine distrutto.
Disarticolare la città, rendenderla funzionale alla transitabilità del mezzo meccanico e ostile al pedone, declassarla a conurbazione, ad assemblamento di mattoncini spersonalizzati, costruire mura a difesa di un benessere miserabile ed illusorio, rendere feconde la ripetizione e l'omologazione, equivale a cancellare la storia collettiva e a fondare in sua vece o come suo surrogato la biografia dell'individuo non-più-sociale: sembra di osservare la decomposizione del volto stesso dell'uomo.

-Ad acerba conclusione

L'agonia (l'insostenibilità) dell'omologante megalopoli occidentale è agonia di civiltà, fare della città un "segno" mi sembra fondamentale per la comprensione del suo significato, credo che sia questo un buon modo di porsi in una corretta prospettiva ermeneutica.


Ezio

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