12 luglio 2006

Generazione e consapevolezza

Preso nei miei studi di primo Novecento ho a volte l’impressione che l’aver fatto una rivista sia un atto contrario non ai nostri tempi, ma alla nostra generazione. La sicurezza nell’affermazione di un insieme di idee è un atto arbitrario, lo sappiamo, ed è proprio questo il problema: lo sappiamo.
La costante sensazione di scimmiottamento è il prezzo che impone l’iperconsapevolezza. “Ogni volta che una generazione s’affaccia alla terrazza della vita pare che la sinfonia del mondo debba attaccare un tempo nuovo. Sogni, speranze, piani di attacco, estasi delle scoperte, scalate, sfide, superbie – e un giornale”. E’ questa una nuova forma di inettitudine? Come al solito, sull’onda dell’entusiasmo, siamo troppo ottimisti: è la solita forma dell’inettitudine.

La mancanza di “novità” si prospetta come male del secolo, sì, ma non crogioliamoci in un principio pessimistico (e già guardate come qui il discorso dovrebbe procedere a specchi, sappiamo infatti dove può portare una tale teoria, ci abbiamo fatto un numero sopra, ed era un numero ottimista), la mancanza di “novità” ci si prospetta ora come male…del secolo scorso. Siamo all’impasse che impone la via che abbiamo scelto, la condizione di critica permanente ci proietta in una situazione di immobilismo. E dato che non ho voglia di iscrivermi a un partito bisognerà pur trovare un’altra strada.

Se prendiamo i lavori di tesi dei contemporaneisti tabardiani abbiamo un’altra riprova del problema: Uno e molteplice nel primo novecento, il tragico di Achille, la personalità autoritaria, la concezione del comico di Eugenio (resta chiaro che Sancio Panza è il nostro patrono e solo per amor suo sopportiamo Don Chisciotte), il Rodari combinatorio di Matilde, i problemi joyciani e wittgensteiniani che porta avanti il lavoro di Daria, l’Oulipo di Paolo. Dovremmo a questo punto avere chiaro, sulla scorta di Nietzsche e di quel suo pronipotino che è Guido Guglielmi, che la letteratura combinatoria, la letteratura della FORMA, la letteratura che tende a fare della vita lo specchio del racconto (e non viceversa) è un’evoluzione del tema del “sorrido e guardo vivere me stesso”, cioè del tema di colui che non riesce a vivere se non nella propria mente, dell’inadatto alla vita, il luogo in cui psicologia e FORMA narrativa (come elemento predominante del racconto) si danno la mano.

Allora eccoci al punto cari compagni tabardiani, ed è un punto che riguarda proprio quel concetto di militanza caro al Severi, un concetto che a questo punto va (forse) totalmente rivisto. O prospettiamo anche noi la nascita di un mondo (anche solo un mondo teoretico-culturale) diverso, tabardiano (che è più o meno ciò che stiamo facendo), o ci prepariamo amarxianamente a riformulare (già fatto) l’idea di “teoria” e a riformulare (già fatto) l’idea di “prassi”.


Mimmo Cangiano

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06 luglio 2006

Redazione a brandelli

In previsione dell'imminente uscita del numero 3-4 di Tabard (fissata per il 10 luglio), abbiamo voluto pubblicare un estratto delle nostre discussioni a distanza. Questo breve scambio di battute, se da un lato fornisce un'idea della "dedizione" con cui si affrontano le questioni basilari nella redazione della rivista, dall'altro è decisamente utile a evidenziare il grado di stanchezza di un gruppo editoriale che, come è giusto che sia dopo la preparazione di un numero sul postmoderno, ha finito col trovarsi ridotto, per l'appunto, a brandelli.


Mail del 22/06/2006, ore 21.18

Ciao a tutti,
questo (vedi allegato Word) è il risultato della somma delle vostre segnalazioni sui refusi. Bisognerebbe rileggere gli altri articoli non presenti in questo elenco e inviare entro stasera ulteriori segnalazioni (via mail, non inseriteli nel file altrimenti dobbiamo comparare tutti i file che rimandate e ci rincoglioniamo).
Come metodo: ognuno dovrebbe rivedere il proprio pezzo (come disse Mimmo), e chi ha buona volontà potrebbe dare un’occhiata agli articoli degli esterni segnalando quelli su cui si lavora per evitare inutili dispendi di energia.

Questioni fondamentali: Copertina, titolo, lunghezza rivista.

Lunghezza rivista: A quanto abbiamo capito, le pagine della rivista dovrebbero (in tutto, comprese copertina e quarta di c.) essere 160 (multiplo di 16, ma perché il tizio della tipografia ha parlato di 164?
Marco, per favore, chiami e ci fai sapere per tutto?!).
Mancherebbe una pagina sola (una facciata per intenderci). Che ne pensate di aggiungere una breve citazione alla fine tra le vignette e il sommario di Studi di estetica che resta per ultimo? E, nel caso, quale citazione? Vittorio propone (Daria tu l'hai letto) una citazione
da Pynchon, L'incanto del lotto n.49, in cui Los Angeles vista dall'alto viene descritta come un circuito elettronico. Potrebbe
fungere da prologo al numero 5 che dovrebbe essere sulla città, e in ogni caso c'entra molto col postmoderno e la sua "mappatura".

Copertina: Noi restiamo dell’idea che un primo piano di un bambino dei Chapman Bros sarebbe la soluzione migliore. Kobra, la Monna Lisa ci sembra troppo inflazionata, ultimamente (sarebbe come mettere una Marilyn). Le altre immagini, seppur belle, renderebbero pochissimo in bianco e nero. Ma mettiamola ai voti dato che non abbiamo per ora altre proposte.
I voti a favore di questa (Chap bros) per ora sono numerosi (Eugenio, Vittorio, Mimmo, Francesco, Lorenzo).

Titolo: Con questa foto secondo noi il titolo proposto da Mimmo sarebbe perfetto.
Chi ha paura del postmoderno?
Ai voti: a favore (Eugenio, Vittorio, Mimmo, Francesco, Lorenzo, Aldo Nove, Gattuso).
I voti contro ma senza alcuna proposta sostitutiva verranno annullati. (Kobra?)

Per tutto entro domattina, massimo ore 9, dovreste dire la vostra (o tacere, in tal caso decidiamo noi).

Senza scherzi, soprattutto per i refusi «dateve da fa’» (Wojtyla).
Domani alle nove e mezza mandiamo tutto a Massimo.

Ciao
from Putenza
Eugenio e Vittorio


Mail del 22/06/2006 ore 22.18:

Se la Monna Lisa è inflazionata, Chi ha paura del postmoderno? è invece veramente originale. Ci metterei l'immagine di Manuel Agnelli che canta Male di miele...
Frasi del tipo: "I voti contro ma senza alcuna proposta sostitutiva verranno annullati. (Kobra?)", evidenziano un'immaturità democratica degna dello stalinismo, ma d'altronde è risaputo che qualcuno di voi si tocca con la foto del Beppe...
Bando agli scherzi, a me come già evidenziato i chappa vanno bene in copertina, l'importante è che sia un'immagine provocatoria e che non abbia un contorno - nel senso di cornice - rigido come quella del secondo numero che un po' scazza...
Il titolo, come ho già espresso, a me, fa cacare, quindi proprorrei o Nella rete del Postmoderno o Il Postmoderno nella rete, come suggeriva Severi qualche riunione fa - che oltretutto è anche da Mondiale - altrimenti una cagata che mi è venuta in mente ora potrebbe essere Tre passi nel Postmoderno, ma evito di dire altre cazzate perché sono stanco...
Oppure Un, due, tre... Postmoderno, oppure Cicciolina versus il Postmoderno. Di proposte ne ho fatte così non vengo annullato...
Quindi sia il popolo a votare ma voti se no è annullato...
Comunque buona notte compagni e per il momento - salvo imprevisti finali, tocca i maroni - avete fatto un buon lavoro.
Un saluto a tutti, Paolo.

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03 luglio 2006

Ma qual è il bene assoluto?

Poche notti fa ho fatto un sogno. Mi trovavo nel mezzo di una disquisizione intorno alla natura del bene assoluto, e chiaramente le posizioni dei partecipanti al dibattito erano marcate da nette e profonde differenze. Animatori di questo appassionato dialogo erano padre Bisceglia, il noto prete cosentino arrestato per violenza sessuale su una suora, il neo ministro Rosy Bindi, un tifoso della Juventus e una coppia di fidanzati. L’infuocato dibattito vedeva per lungo tempo opposti padre Bisceglia e la Bindi. Il prete, sostenitore dell’identificazione tra il bene assoluto e Dio (pur non disdegnando di evidenziare l’importanza delle suore), aveva molto da ridire con la Bindi, che dal suo canto tendeva invece a ipostatizzare il valore della famiglia. Nell’ambito del serrato confronto dialettico il religioso ha avuto un unico tentennamento di fronte ad alcune avances del neo ministro, subito però respinte in un impeto di strenuo volontarismo. Partecipi al dibattito, ma un po’ più in disparte, c’erano poi il tifoso della Juve, secondo cui il bene assoluto doveva essere identificato con il cellulare di Moggi, e la coppia di fidanzati, sostenitori dei rapporti liberi ed aperti, che parlavano del bene nei termini della «capacità del proprio partner di lasciare all’altro la possibilità di nuove relazioni». Mentre quasi mi convincevo della validità di questa teoria, sono purtroppo stato svegliato da una telefonata, in cui mi si chiedeva di intervenire nel dibattito in corso sulla militanza con un mio post.

E allora eccomi qua, a discutere di quale sia la forma migliore di militanza. Per quanto riguarda l’idea di una «ricaduta nel dibattito cittadino sulla cultura», è chiaro che Tabard nasce esattamente con questo spirito. Penso alle numerose conversazioni che si sono susseguite prima di partire con questa attività editoriale, e mi sembra di ricordare che nessuno di noi prescindesse dall’idea di portare avanti un discorso soprattutto politico. Al riguardo, mi rallegra pensare che Fernando Bollino, nel suo editoriale su Studi di estetica, abbia messo in evidenza proprio questo aspetto della nostra rivista. Il problema, a questo punto, è legato alla prassi. Personalmente trovo doveroso pensare di indirizzare questa nostra azione verso la creazione di nuovi spazi di intervento sul sociale (e quando parlo di “creare” nuovi spazi intendo per l’appunto la necessità di rifiutare una semplice dinamica di riappropriazione, che è alla base invece delle rivendicazioni di numerosi movimenti). Tracciare però un programma dettagliato che identifichi i passaggi di realizzazione di questo progetto è cosa chiaramente difficile, e forse neanche funzionale. D’altronde l’impostazione eterodossa e relativista di questa rivista sarebbe poi in contrasto anche con un simile presupposto.

Dunque cosa fare? Innanzitutto credo che il lavoro sinora svolto sia già un chiaro segno della volontà di agire socialmente che ci ha mosso, e sono contento che quanti sono venuti in contatto con la rivista ci stimolino a non fermarci, a non cadere in uno sterile sentimento di appagamento che porterebbe alla ripetizione. Penso che, prendendo spunto dalle parole di Andrea, sia giusto a questo punto pensare con maggiore attenzione alle realtà sociali cittadine e provinciali, andare ad affondare lo sguardo nel loro tessuto, entrare (o meglio tornare) in una dinamica di partecipazione anche con quei luoghi (per molti di noi differenti e sparpagliati per il paese), la cui problematicità è forse tra le cause prime che hanno determinato a partire dal passato un bisogno di azione.

Quanto detto potrebbe forse apparire scontato, ma chiaramente, affrontando il discorso della prassi, di una prassi che soprattutto non vuole avere una progettualità forte, appare palese la difficoltà di dire una parola definitiva. Piuttosto, se una caratteristica deve essere assunta dalla nostra “parola”, credo che questa debba essere la capacità di parlare volendo arrivare al profondo, a infilare la mano nella pancia, nelle viscere, affinché questo strumento che noi usiamo diventi responsabile, conseguenza di una scelta di engagement. Concludendo, per dirla con la voce di Roberto Saviano, presa a prestito dal suo bellissimo primo libro Gomorra, il nostro impegno deve consistere nel cercare di erodere «dalle cave della sintassi quella potenza che la parola pubblica, pronunciata chiaramente, poteva ancora concedere, [evitando] l’indolenza intellettuale di chi crede che la parola ormai abbia esaurito ogni sua risorsa che risulta capace solo di riempire gli spazi tra un timpano e l’altro. La parola come concretezza, materia aggregata di atomi per intervenire nei meccanismi delle cose, come malta per costruire, come punta di piccone […] una parola necessaria come secchiata d’acqua sugli sguardi imbrattati […]. La parola diviene un urlo. Controllato e lanciato acuto e alto contro un vetro blindato: con la volontà di farlo esplodere».

Vittorio Martone

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